La recente discussione sulle retribuzioni dei top manager pubblici ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica le retribuzioni esagerate che certi top manager percepiscono sia nel settore pubblico che in quello privato. Da dove nasce questo fenomeno? E’ sempre stato così? No! Non è sempre stato così. Fino a tutti gli anni settanta del secolo scorso il rapporto tra le retribuzioni dei vertici di un’impresa e quella dei suoi dipendenti al massimo arrivava a 40 a uno, mentre oggi può raggiungere anche un rapporto di 1.000 a uno e anche di più.
La svolta si ha negli anni ottanta e costituisce una delle vie per l’affermazione e il consolidamento del reaganismo neo liberista. Nei decenni precedenti si erano affermate prassi che vedevano il manager essere una sorta di mediatore di tutti gli stakeholders, tra i quali gli azionisti proprietari non erano che una componente tra le altre. Questo atteggiamento trovava anche conferme e supporti teorici negli studi di economisti come Baumol, Berle, Means, Galbraith. Secondo questi autori il management delle grandi imprese avvertiva il proprio ruolo sociale e cercava di interporsi tra i vari interessi, ivi compresi quelli della collettività in cui operavano. Scopo dell’impresa di grandi dimensioni non era più la massimizzazione del profitto di breve termine, bensì lo sviluppo dell’impresa e la massimizzazione del profitto di lungo periodo. Tutto questo determinò quel periodo “d’oro” di sviluppo equilibrato, che Giorgio Ruffolo ha definito di “capitalismo ben temperato”, e che fu interrotto dalle crisi petrolifere degli anni settanta. Queste provocarono un’inflazione da costi che invece la destra neo liberista fece passare come inflazione da domanda dovuta all’espansione della spesa pubblica e della massa monetaria. La debolezza della presidenza Carter e l’ottusità della dirigenza sovietica fecero il resto, e ci ritrovammo i neo liberisti al potere nel mondo intero. A questo punto la destra estrema che stava dietro l’ascesa di Reagan capì che per realizzare un’affermazione duratura del neo liberismo selvaggio occorreva portare il management delle imprese dalla propria parte, far passare i top manager dalla classe della media borghesia a quella dell’alta borghesia, dar loro l’impressione di essere diventati dei “pari” dei capitalisti (ma solo l’impressione). Si è allora cominciato a dare retribuzioni spropositate ai top manager che non avevano alcun rapporto con l’effettivo loro apporto all’attività d’impresa. I teorici neo liberisti cercarono di dare un supporto teorico a questa svolta ribadendo il loro concetto di base che le remunerazioni dei diversi fattori produttivi sia in funzione della rispettiva “produttività marginale”. Ma trattasi di un concetto fallace e lo dimostra la circostanza che percepiscono retribuzioni stratosferiche anche manager di imprese che sono in perdita, o che comunque hanno una redditività che sarebbe conseguita anche da altri manager disposti a prendere retribuzioni di gran lunga inferiori. Ma anche quando si tratta di imprese che lì per lì guadagnano più delle altre, molte volte quella redditività risulta poi fasulla negli anni successivi. In un precedente “gessetto” abbiamo visto il caso dell’ex a.d. di Unicredit Alessandro Profumo. Questi percepì cospicui bonus finché restò in carica e grazie ai risultati di bilancio dell’epoca, poi però si è scoperto che in realtà quegli utili erano illusori perché si sono trasformati oggi in cospicue perdite. Ed è irrilevante discutere se gli eventi di oggi fossero o meno prevedibili allora, basta il fatto oggettivo che quei risultati contenevano un baco, prevedibile o meno, e che quindi non potevano generare bonus. Questo avviene in tutte le grandi imprese, questa è la famosa “ottica di breve periodo” che tanti danni ha provocato fino all’attuale crisi globale. I grandi azionisti lo sanno e lo tollerano volentieri pur di mantenere il management dalla loro parte. Per i manager pubblici i politici lo sanno e lo tollerano volentieri pur di avere un management docile e subalterno ai loro disegni, anche quando conducono verso la corruzione.
Tutto questo dimostra altresì che il capitale ha bisogno estremo del management, come già notò soprattutto Galbraith, che coniò il termine di “tecnostruttura”, anche perché la maggior parte dei detentori, come va ripetendo oggi Della Valle, oltre che “andare a sciare” non sanno fare altro. E quindi dimostra il ruolo che il management stesso può svolgere per rimettere in linea un capitalismo che continua a sbandare e a provocare crisi. Ma il top management sembra abbia venduto la propria anima, … e qualcos’altro.