La riforma costituzionale è “frettolosa”. Ma dura da trent’anni…

Il nuovo Senato delle Autonomie     Il 31 marzo scorso il Consiglio dei Ministri ha varato un progetto di legge costituzionale per la riforma del bicameralismo e del Titolo V della Costituzi...

Il nuovo Senato delle Autonomie

Il 31 marzo scorso il Consiglio dei Ministri ha varato un progetto di legge costituzionale per la riforma del bicameralismo e del Titolo V della Costituzione.

Ma ancor prima che il testo definitivo fosse noto i conservatori di ogni risma (soprattutto i conservatori di sinistra) hanno messo in circolazione almeno tre bufale per inquinare i pozzi del cambiamento.

La prima riguarda l’eccessiva fretta – e, dunque, approssimazione – della riforma proposta dal Governo Renzi.

Una osservazione singolare se si pensa che in Italia si discute di riforme istituzionali dalla fine degli anni ’70, cioè dall’inizio della crisi della rappresentanza delle forme politiche tradizionali e che negli anni si sono succedute diverse Commissioni bicamerali incaricate di studiare il tema e produrre soluzioni: la Bozzi (1983-85), la De Mita-Iotti (1993-94), la D’Alema (1997).

Ultima in ordine di tempo la Commissione di 40 esperti di diritto costituzionale e altre discipline afferenti convocata da Letta e Quagliariello che ha prodotto una Relazione finale e delle proposte.

Questo ultimo tentativo prevedeva addirittura l’istituzione di un comitato bicamerale per il superamento della procedura rafforzata di revisione costituzionale prevista all’articolo 138 della Costituzione.

Il governo Renzi ha ritenuto, viceversa, di seguire il percorso previsto dall’art. 138. Il che significa almeno un anno di lavori per garantire la doppia lettura del testo da parte di Camera e Senato con la possibilità, in caso di approvazione a maggioranza, di interpellare i cittadini con un referendum costituzionale come già accaduto nel 2001 e nel 2006.

Insomma, la critica sulla eccessiva velocità del processo riformatore da parte del governo attuale appare del tutto infondato, sia perché arriva alla fine di almeno un trentennio di dibattiti sull’argomento, sia perché avviene nel rispetto della procedura rafforzata prevista dall’art.138 Cost.

La seconda bufala riguarda il tema dell’abolizione del Senato. Non v’è dubbio che la diffusione di questa bufala è in parte anche responsabilità del linguaggio garibaldino utilizzato dal Premier. Tuttavia, basterebbe leggere con sufficiente onestà intellettuale il ddl per capire che rimarrebbe un parlamento bicamerale.

La seconda Camera continuerebbe a chiamarsi Senato e in questo bisogna riconoscere la disponibilità del governo ad accogliere anche le osservazioni provenienti dai Presidenti delle Regioni e dalla Conferenza dei Consigli regionali. La differenza rispetto alla situazione attuale starebbe nella diversificazione dei compiti tra le due Camere e nell’ingresso in Parlamento di una rappresentanza diretta delle istituzioni territoriali più vicine ai cittadini.

Un fenomeno assolutamente consolidato a livello istituzionale in altri paesi europei come Francia e Germania. In entrambi questi paesi abbiamo una seconda Camera formata con rappresentanti dei territori: dei Land nel Bundesrat, addirittura di rappresentanza dei sindaci nel Senato francese. 

La terza bufala riguarda la “deriva autoritaria” che alcuni gruppi politici e alcuni intellettuali conservatori agitano nel dibattito pubblico. Una affermazione suggestiva che scatena le retoriche sulla Costituzione più bella del mondo e il perenne complesso del tiranno, ma che è del tutto priva di fondamento.

Il Senato, conformemente alle nuove funzioni, diventa, più semplicemente, un organo elettivo di secondo grado. Non è vero che diventerebbero senatori persone non elette. Intanto, perché sindaci e presidenti delle Regioni sono espressione diretta della volontà dei cittadini, sia perché votando per i sindaci o per i presidenti delle Regioni si voterebbe anche per una parte dei componenti del Senato. Un’altra parte di questi componenti sarebbe scelta da altri eletti (ovvero sindaci e consiglieri regionali).

Nulla di sconvolgente, se si pensa che qualcosa di simile accade anche in Francia e in Germania.

Stupisce davvero che, dopo aver straparlato per anni di federalismo, si accolga come deriva autoritaria una riforma che porta le Regioni e i Comuni dentro al principale organo legislativo dello Stato. Si tratta di una soluzione adottata già in ordinamenti ben più federali del nostro. Il passaggio al Senato delle Autonomie, viceversa, amplia, non restringe, la democrazia, nel senso che rafforza e razionalizza il legame dei territori con il centro.

L’altro argomento usato per diffondere la bufala della deriva autoritaria è che un Senato cosi configurato perderebbe le funzioni di garanzia e di controllo. Siamo di fronte ad un altro argomento falso. In primo luogo, perché chiunque abbia una conoscenza minima dei meccanismi parlamentari e della storia degli ultimi anni e l’onestà intellettuale per descriverli come sono, sa bene che il Senato, all’opposto, è stato in questi decenni il luogo nel quale si riproduceva in modo speculare la liturgia già celebrata alla Camera.

Nel nuovo sistema, viceversa, il Senato potrebbe avere poteri di controllo e contrappeso che oggi non ha. Su materie molto importanti il Senato può lanciare allarmi precisi con il proprio dissenso e costringere la Camera a ritornare sulla decisione presa con una maggioranza qualificata. In più, c’è il tema della valutazione sull’impatto delle leggi e sulle politiche pubbliche conseguenti – tema enormemente innovativo e fin troppo taciuto – che meriterebbe bel altro approfondimento.

L’unico vero stravolgimento che sta in questa riforma è un altro: la drastica riduzione delle materie su cui si eserciterà la potestà legislativa delle Regioni. Nessuno ne parla, a malapena i consigli regionali, forse per eccesso di vergogna. E’ la presa d’atto del fallimento di 10 anni di regionalismo: da una parte, per la quantità di contenziosi aperti tra Stato e Regioni senza un effettivo miglioramento dei servizi ai cittadini; dall’altra, per l’abuso criminoso di risorse pubbliche da parte del ceto politico regionale.

In realtà, la riforma in atto risponde a dei criteri abbastanza normali di evoluzione del sistema politico-istituzionale: la semplificazione del processo legislativo e la soluzione dei contenziosi tra Stato e Regioni sulla potestà legislativa; la garanzia di tempi certi e di accountability per il dibattito parlamentare; l’integrazione della rappresentanza generale con la rappresentanza dei territori come avviene nelle più importanti democrazie europee.

Val la pena ricordare – specie a vantaggio dei lettori di questo magazine – che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. L’idea di una Camera delle Regioni era già iscritta nella 4^ tesi del Programma dell’Ulivo del 1996. Lì si legge appunto, fra l’altro, che:

·         “la realizzazione di un sistema di ispirazione federale richiede un cambiamento della struttura del Parlamento”;

·         “il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza”;

·         “i poteri della Camera delle Regioni saranno diversi da quell’attuale Senato, che oggi semplicemente duplica quelli della Camera dei Deputati. Alla Camera dei Deputati sarà riservato il voto di fiducia al Governo. Il potere legislativo verrà esercitato dalla Camera delle Regioni per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali”.

Insomma, sono passati vent’anni dal 1996 e siamo ancora qui. Forse qualche democratico malpancista dovrebbe ricordarsene…

Articolo già pubblicato da Gazebos.it

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