Sarà pur vero che i francesi non sono campioni di simpatia, ma se continuano così, gli anglosassoni rischiano di batterli. Da qualche mese a questa parte alcune testate britanniche e americane tra le più prestigiose non la smettono di sparare a zero sulla Francia. Mi chiedo chi ha concesso loro questa sorta di superiorità morale, chi li ha autorizzati a pontificare sugli altri popoli – spesso si tratta di quelli latini – che per loro sono sempre antiquati, poco performanti, irresponsabili e via dicendo. Talvolta hanno ragione, non voglio affatto negarlo, ma mi chiedo perché noi non si faccia altrettanto e si continui invece a incensare l’Inghilterra e gli Stati Uniti sempre e comunque.
In principio fu un articolo apparso sul New York Times nel luglio 2013. Secondo l’inviata speciale Maureen Dowd, la Francia è un Paese che si sta tristemente ripiegando sul suo glorioso passato. “Bonjour Tristesse“, titola la giornalista americana parafrasando il titolo del celebre romanzo di Françoise Sagan. I francesi, dunque, sarebbero un popolo sempre più triste a causa della globalizzazione e della loro conseguente marginalizzazione culturale. In più, esporterebbero la loro depressione anche all’estero. Di chi è la colpa? Beh, degli scrittori francesi, ovvio, troppo tristi, troppo pessimisti, come un certo premio Nobel Albert Camus, citato nell’articolo. Mica sono “Happy” come il mitico Pharrell Williams. Nell’odierna società dell’ottimismo – per la serie: non hai un lavoro? Di che ti lamenti? Vai a fare un po’ di surf! – riflettere sui disastri del capitalismo selvaggio non è per niente cool! E se un tempo l’immagine del francese un po’ tenebroso, alla Jean-Paul Belmondo, che fumava al tavolino del bar faceva figo, ora è diventata ridicola perché si usa la sigaretta elettronica. Insomma, un arguto ragionamento maturato in una brasserie accanto ai Jardins du Luxembourg, all’indomani di una sfilata di haute couture. Cioè, là dove incontri i francesi autentici proprio.
Rincara la dose Janine di Giovanni, un’inviata fighetta del Newsweek che dal suo 16° arrondissement di Parigi – il più borghese e immobile della capitale – parla della “fall of France” in un articolo pubblicato a gennaio di quest’anno e che ha suscitato vive polemiche in Francia. In questo articolo penoso e pieno di inesattezze, la “giornalista” accusa il governo socialista di François Hollande di uccidere l’economia francese e di sostenere uno stato assistenziale “mentre Roma brucia”, sottolineando quanto sia scandaloso che in Francia non ci siano gli omologhi di Richard Branson e di Bill Gates. Da antologia la sua riflessione sul fatto che “non esiste un termine francese per dire entrepreneur“, allorché non si rende conto che la parola che sta uilizzando è francese e che al contrario è la lingua inglese a non avere un sinonimo di “imprenditore” nel proprio dizionario.
A proposito di lingua. Lo scorso 5 aprile, Le Courrier International – settimanale molto simile al nostro Internazionale – riprende un altro gioiello: si tratta di un articolo firmato da Liam Mullone sul britannico The Spectator. Il titolo è emblematico: “Perché non permetterò ai miei figli di imparare il francese”. Presto detto: perché “è la lingua della sconfitta di numerosi Paesi africani” – mentre è notoria la finezza e l’efficacia della politica coloniale britannica – ma soprattutto perché “non è un asso nella manica nel mondo degli affari”. “Nessun britannico si trasferisce in Francia per creare un’impresa”, rileva argutamente Mullone, senza rendersi conto che per trasferirsi in Francia bisogna imparare il francese (thanks God!) e che pochi dei suoi connazionali hanno voglia di farlo. Tra l’altro, che il francese sia la lingua di Montesquieu e di Proust, chissene.
Io invece – se proprio dovessi essere un padre così idiota e pretenzioso da imporgli le mie scelte – potrei spingere mio figlio a imparare il cinese, o l’indiano, o il portoghese, perché forse quando sarà grande l’inglese non servirà più a nulla. Anzi no, ad essere sincero mi piacerebbe che mio figlio non utilizzasse il business e il denaro come unico valore per misurare la vita e mi mandasse a quel paese. Ma questo gli anglosassoni non possono capirlo. È più forte di loro.