Tre anni sono tanti. Se questi poi coincidono coi momenti professionalmente più belli, sono difficili da cancellare. Anzi, impossibili. Dopo più di tre anni, io non sono più un giornalista de Linkiesta. Questo post è dedicato ai lettori che in questo tempo mi hanno conosciuto, aiutato, insultato, odiato, apprezzato, deciso di seguirmi, deciso di ignorarmi. Loro sono quelli che meritano qualche riga in più per far loro capire cosa ha rappresentato LK in tre anni. Ma è dedicato anche ai miei colleghi, nessuno escluso, che hanno sopportato me e i miei gufi portafortuna (Spread e Bund) per tutto questo tempo. Infine, è dedicato anche a me stesso e a chi ha deciso di sopportarmi per tutta la vita. Per noi, il domani è già iniziato.
Non dimenticherò mai il momento in cui Jacopo Tondelli, giovane giornalista uscente dal Corriere della Sera, mi disse che voleva creare un giornale online e mi voleva nella sua squadra. Eravamo a Roma e fu il mio vicedirettore a Il Riformista, Massimiliano Gallo, a presentarmelo. Non nego che ero molto scettico all’inizio. Non che avessi paura del web, né che lo considerassi di serie B rispetto al giornalismo cartaceo. Però non sapevo che fine avrei fatto. Preso il coraggio necessario per questo genere di avventure, sono diventato un giornalista de Linkiesta nel finale del 2010. Nella redazione di Roma, il primo giorno non avevamo nulla, se non una scrivania e una sedia. Tutto è arrivato dopo, dai telefoni ai pc. Eppure ci sentivamo al meglio, rinvigoriti come non mai e pieni di voglia di fare. Non sapevamo dove saremmo arrivati, ma sapevamo che qualche soddisfazione ce la saremmo tolta. Sono sincero: se qualcuno mi avesse detto che dopo nemmeno un anno saremmo finiti sul Financial Times, su The Economist o sul Wall Street Journal, gli avrei riso in faccia. Una di quelle risate di gusto, di pancia. Invece, finì proprio così. Noi, piccoli e giovani giornalisti di un piccolo e giovane giornale online con redazione in uno scantinato a Lambrate (quartiere di Milano noto più per il Fuorisalone che per i giornali), eravamo finiti sulle principali testate europee. E vi lascio immaginare la mia faccia quando il direttore di Die Zeit mi chiese di scrivere un editoriale sulla crisi italiana. O la mia felicità nel vedere il nostro Alessandro Da Rold citato sull’Economist. Il primo pensiero è che fosse tutto un sogno. Non lo era, per fortuna.
I ricordi di quei primi giorni sono tantissimi. Dalla redazione scarna alle prime riunioni con Jacopo Barigazzi, il caporedattore, che prima di essere un collega è stato un maestro, tanto vulcanico quanto visionario. Lo scopo, quello di fare un giornalismo di qualità solo su web, per di più in italiano, fu vista come una scommessa dai più. Ma c’era spazio per questo genere di iniziative e l’abbiamo colta. Nascere non è stato facile, crescere ancor di più. Ma sapevamo che le nostre non erano solo utopie da startupper sotto effetto di acido lisergico. In un panorama giornalistico impegnato in un netto deleveraging, abbiamo cercato di tentarci.
Poi, venne la Grande crisi. Per certi versi, fu una fortuna. Ci fu un momento specifico, rimasto nella mente di me e di Barigazzi. Mentre eravamo a Bruxelles per un roadshow del giornale, era il maggio 2011, abbiamo parlato con diversi funzionari di Commissione Ue e Parlamento. Uno di questi ci disse di stare attenti alla situazione italiana. Nessuno disse espressamente che Roma sarebbe stata la prossima vittima della crisi, ma il significato era chiaro. Dopo poche settimane, l’esplosione totale del bubbone. E fu in quel momento che Linkiesta prese il volo. Io e Antonio Vanuzzo, mio compagno di desk per oltre tre anni, eravamo a Francoforte per la consueta riunione mensile della ECB, e abbiamo deciso che avremmo dovuto twittare in inglese. Tutti gli occhi erano sull’Italia e mancavano voci in lingua anglofona per raccontare la crisi di Roma, che poi portò alla semi-distruzione dell’euro, con la nascita del rischio di convertibilità della moneta unica.
Incredibile fu la risposta dei colleghi internazionali. Da Chris Adams del FT ad Anton La Guardia dell’Economist, passando per Luke Baker di Reuters, tutti chiedevano cosa fosse quel piccolo giornale online italiano con una header di colore blu che si faceva strada. Le soddisfazioni che ci siamo tolti mentre eravamo nello scantinato di Lambrate sono state numerose. E c’era sempre un sorriso quando vedevano i badge de Linkiesta agli eventi. Anche in quel caso, i lettori c’erano. Commentavano, discutevano, interagivano. Non dimenticherò mai le discussioni via Twitter sulla crisi italiana, nel periodo più nero, quello dell’autunno 2011. E non dimenticherò mai il G20 di Cannes, quello della risatina tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Noi eravamo lì, con lo stesso spirito garibaldino e completamente destrutturato che erano le nostre prerogative. Non dimenticherò nemmeno le telefonate alle tre di notte con Barigazzi, giusto per «fare l’ultimo punto sul G20». Nessuno aveva sonno, nessuno era stanco. C’era solo voglia di fare quello che sapevamo fare meglio: raccontare i fatti. Ed è quello che sempre abbiamo cercato di fare.
Il 2012 fu altrettanto carico di tensioni e Linkiesta c’era, sempre. Era ormai quotata settimanalmente dalle più importanti testate internazionali e nonostante fossimo un team piccolo, c’era una fame che mai avrei immaginato. L’obiettivo era solo uno, arrivare prima degli altri. Non con la notizia in sé, ma con la visione completa delle cose. E sono state memorabili le discussioni con Barigazzi, al termine delle quali emergeva non una, ma una dozzina di idee. Dalle critiche al governo alle rinnovare tensioni sull’Italia, il punto di fondo era solo uno: cercare di raccontare il più possibile l’evoluzione del Paese e di un’eurozona vicina alla rottura. Per questo nostro tenore ci siamo presi tanti di quegli insulti che sarebbe difficile scegliere quello più originale. La soddisfazione maggiore era proprio questa: i lettori si formavano un’opinione e noi abbiamo contribuito a farlo.
Nel 2013 lo stress è venuto meno, la crisi iniziava a declinare, complici le azioni (e le parole) di Mario Draghi. Il terremoto sui mercati finanziari lasciò lo spazio al terremoto dentro Linkiesta. Nonostante questo il giornale, grazie a tutto il team, è ripartito. Non era facile, ma ci siamo riusciti. E bisogna anche ringraziare i lettori, che non hanno mai abbandonato il giornale, ma anzi lo hanno seguito con un attaccamento sempre maggiore. Noi abbiamo sempre cercato di fare il possibile per rendere l’esperienza il più possibile di qualità, anche quando la situazione ambientale non era delle migliori.
Come in qualunque storia d’amore, ci possono essere delle rotture. Possono essere improvvise, possono derivare dal logoramento del rapporto, possono essere distruttive o pacifiche. Poco importa. Nessuno le vorrebbe, ma accadono. E quando è così, conviene prendere un certo periodo di vacanza prima di ricominciare una nuova vita. Non bisogna però mai avere paura del cambiamento. Averne timore significa prima di tutto non vivere a pieno. E non vivere a pieno significa perdere occasioni. Mi ricordo come fosse oggi cosa mi ha detto mia nonna una volta assunto al Riformista: «Fai bene a lanciarti del tutto in questo mondo, lanciati e non aver paura. E nel caso andasse male, non aver paura a tornare indietro, per poi ripartire. Solo chi ha paura non torna indietro e non riparte, rimane in un limbo». Aveva ragione.
Questo non è un addio, ma un arrivederci. Che sia carta fisica o che sia carta elettronica, poco importa. Quello che conta è continuare la quotidiana lotta contro il cattivo giornalismo, più basato sui click che sulla qualità generale. Un giornalismo, nel caso di quello economico-finanziario, fatto di numeri, grafici, fogli di Excel e lunghe ore passate a interpretare report. C’è poco da dire: non è esattamente la branca del giornalismo più attraente per un giovane che si avvicina a questo mondo. Ma l’emozione che deriva dallo scovare una notizia nei meandri di un paper è qualcosa di indescrivibile. Bisogna provarla per comprendere. E la speranza è che leggendo queste righe a qualcuno venga voglia di provarci con il giornalismo finanziario. Il rischio più grande è che gli piaccia così tanto da non poterne più fare a meno.