È figlia del grande artista e cantautore milanese e, ora, è vicepresidente della Fondazione dedicata al padre. Dalia Gaberscik è inoltre a capo di una delle agenzie di comunicazione tra le più importanti del nostro paese, la Goigest, che ha come clienti Laura Pausini, Marco Mengoni, Claudio Baglioni, ecc. Dopo la morte del padre, organizza periodicamente eventi ed iniziative con lo scopo di ricordare e diffondere l’opera di Gaber. Tra le più importanti, la rassegna “Milano per Giorgio Gaber” e il “Festival Gaber”.
Si è conclusa da poco l’edizione di “Milano per Giorgio Gaber”. Cosa ha dato Gaber a questa città? E, viceversa, quanto ha dato Milano a suo padre?
Se parliamo del rapporto tra questa città e Gaber, bisogna innanzitutto ricordare che lui ne è stato uno dei figli più celebrati e riconosciuti. Credo che abbia avuto (e continui ad avere) un trattamento sicuramente non riservato a tutti. Evidentemente anche le 40.000 persone che sono venute alla camera ardente dopo la sua morte hanno sancito un legame profondo con lui e con la sua opera. C’è anche da dire che c’è sempre stata una forte vicinanza delle istituzioni: nessuno si è mai dimenticato completamente di lui. La stessa volontà del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, di dedicargli il Teatro Lirico lo conferma.
Qual è il rapporto tra la Fondazione Gaber e i giovani? Che cosa – prima di tutto – può dare ad un ragazzo l’opera di suo padre?
Si tratta di un incontro sorprendentemente positivo. Sempre. Continuiamo, giorno dopo giorno, a trovare persone giovani che hanno entusiasmo, e che vogliono sinceramente incontrare e conoscere la persona di Giorgio Gaber. Quello che vedo è che i giovani di oggi sono gli stessi che affollavano i teatri che ospitavano le serate di mio padre negli anni Settanta. D’altronde, l’avvicinamento ai giovani è uno degli obiettivi principali della nostra Fondazione. Lo stesso Andrea Pedrinelli continua a fare lezioni nei licei, proprio per rinforzare questo forte legame, tramite lezioni e analisi dei testi delle canzoni di mio padre. Non credo inoltre che sia un caso il fatto che molti studenti vengano nella nostra Fondazione per chiedere una tesi su Gaber. Parlando del rapporto tra la nostra Fondazione e i giovani, poi, non possiamo dimenticare quanto fatto da molti artisti, come Marco Mengoni, che hanno riproposto in varie occasioni le canzoni di mio padre a un pubblico molto giovane, che le ha subito accolte in modo eccezionale. Facendole proprie.
Che cosa invece lei ha voluto prima di tutto insegnare ai suoi figli? Ho in mente la canzone “Non insegnate ai bambini”, dove il tema dell’educazione assume una valenza totalmente differente rispetto a quanto è opinione comune oggi…
Prima di ogni cosa, ho trattenuto un modello di vita. Ho trattenuto onestà e rigore. Mio padre non era una persona avvezza alla mondanità, e sto cercando di seguire il suo stesso amore a questa onestà, anche nel mio ruolo di madre.
Ci può dire qualcosa sulla prossima edizione del Festival Gaber?
Certo, abbiamo concluso un ciclo di dieci anni. Sono stati dieci anni di grandi eventi, in cornici altrettanto grandi. La stessa dimensione del nostro palco lo ricorda. Su questo palco si sono confrontati con l’opera di Gaber oltre 120 artisti. Noi pensavamo che, dopo questi dieci anni, questo lavoro fosse concluso. Però abbiamo accettato una proposta nata da alcuni comuni della Toscana, che non volevano porre fine a questo ciclo di eventi. Per questo motivo, quest’estate immaginiamo una ventina di serate, tutte nel nome di Gaber, in alcuni comuni della Toscana. Ci sarà sicuramente Rossana Casale con il suo spettacolo; ci saranno concerti, letture, incontri, di cantanti e comici.
Il rapporto tra suo padre e il mondo del giornalismo era abbastanza chiaro. Nella canzone “C’è un’aria” parla dei giornali come di “bordelli di pensiero” e, cito, “lasciateci aprire le finestre, lasciateci alle cose veramente nostre e fateci pregustare l’insolita letizia di stare per almeno dieci anni senza una notizia”. Come vanno di pari passo questa “letizia” e la comunicazione? Come lo vive nel suo lavoro a Goigest?
In realtà, credo che si riferisse a quanto avveniva in alcune importanti testate, nel modo di affrontare alcuni temi come quello della cronaca. Mio padre aveva notato una deriva morale nel fare giornalismo e nel dare le notizie. Credo che la canzone non si riferisca al mondo dello spettacolo, dove è più facile sorridere. Aveva semplicemente segnalato un trattamento totalmente immorale riservato ad alcune notizie.
In un’intervista a La Stampa ha affermato che suo padre non amerebbe il suo lavoro, proprio perché è quotidianamente obbligata a “mediazioni e compromessi”. Pensa ancora quanto detto? O in questi anni ha trovato un modo per vivere questo contesto, ma con una modalità più “liberante”?
Lo credo tuttora. Ma credo altrettanto che apprezzerebbe il modo con il quale faccio questo lavoro. Ho iniziato a occuparmi di comunicazione prima della sua morte: ne era già a conoscenza. Cerco di farlo nella modalità più corretta possibile: credo che, al di là di tutto, apprezzerebbe questo modo di affrontare il mio lavoro.
Proprio per questo, come ha inciso (e come incide tuttora) suo padre nel suo percorso del mondo del giornalismo e della comunicazione?
Se parlo a nome della Fondazione, ha inciso e incide tantissimo. Ci ha lasciato un’eredità enorme e la sua testimonianza è di grande importanza. Tutte le persone che lavorano con noi lo fanno perché innanzitutto sono rimaste colpite dalla profondità dei suoi testi e della sua persona. Se invece parlo “come figlia” di Gaber, ho portato a casa, come è normale che sia, molte cose. Penso ad esempio alla canzone “Non insegnate ai bambini”. Ho trattenuto la sua frase “insegnategli la magia della vita”: l’ho visto.
Perché è importante che suo padre venga ricordato con questa forma particolare, totalmente ancorata alla canzone cantata e all’interpretazione e alla lettura in pubblico?
Credo che il lavoro della Fondazione sia totalmente attuale. Questo ci fa andare avanti a proporre l’incontro con Gaber anche a chi, per ragioni anagrafiche, non lo ha incontrato. Lui stesso diceva: “Ho un unico modo per far arrivare i miei pensieri al pubblico: il teatro”. Altri mezzi avrebbero dato sicuramente fruizione maggiore. Per questo ne era dispiaciuto: la diffusione del suo lavoro era più stretta. Ma lui amava il teatro. Il teatro è “qui ed ora”. Non ci sono telecamere, alle quali era “allergico”. Noi, portando le sue canzoni nei palcoscenici e nelle cattedre, facciamo in modo di far fronte a questo suo piccolo dispiacere. Portandolo a tutti.