La City dei TartariImparare il futuro, a memoria.

  "And you know it's time to go", dice la prima linea di 'A sort of homecoming' degli U2, un capolavoro cinematico della band irlandese. Un andamento quasi krautrock, che ascoltai forse secoli fa, ...

And you know it’s time to go“, dice la prima linea di ‘A sort of homecoming’ degli U2, un capolavoro cinematico della band irlandese. Un andamento quasi krautrock, che ascoltai forse secoli fa, quando cominciavo ad affacciarmi sul mondo. Quell’incipit e tutte le altre parole di quella canzone diventarono un tatuaggio dell’anima, il fedele racconto dell’esperienza di chi ha fame per il tempo (“Hunger for the time”), di chi, all’epoca solamente un tardo adolescente, aveva desiderio di capire i tempi che viveva, la curiosita’ trasversale fra cultura, musica oscura e le mille luci del mondo che, prima con i libri e le foto degli amici e dei giornali, poi, con le gambe ed i mezzi piu’ svariati, avrei cominciato ad attraversare. Ed alla sorgente, un vero, inesauribile desiderio di un futuro che fosse un confine da attraversare continuamente, che fosse una notte di neve, od un pomeriggio di solleone. And you know, it’s time to go. Verso un luogo migliore, il futuro, piccolo partecipante, con tutti I suoi difetti, ma con un cuore grande come un hangar, nelle migrazioni collettive e personali che hanno modellato il pianeta e che continueranno a modellarlo. Lo faranno i piedi e le voci delle persone, quelli avanti che chiameranno veementi quelli rimasti indietro, lo faranno le parole che ci lasceremo lungo la via. Lo faranno le nostre vite, fuori e dentro da questi spazi neurali e elettronici. Ed allora, oggi, all’inizio di una nuova partenza, ho deciso di sospendere, temporaneamente, permanentemente, per due settimane, un anno, insomma, si vedra’, questo blog. Sul confine della City dei Tartari, quella terra di tutti e nessuno in cui sono abitato per quasi venti anni, come un suo cittadino, come un Drogo sugli spalti, ho deciso di rimettermi la bisaccia in spalle, con tutto il mio bagaglio ancora intatto, con tutte le parole  che ho vagliato, letto e riletto. E ne e’ rimasta una, una sola che voglio portare con me. Si chiama Futuro. Che e’ quello che mi sgambetta e ride in casa, quello che inizia ogni mattino, con la rugiada come se fosse una lacrima di Dio per la fatica immane fatta per regalarci un’altra alba, in cui sentirsi vivi e pronti a spingere la storia ancora piu’ avanti. E il futuro, questa piccola ossessione interna, e’ rimasto, quel motto, quella parola che proprio non se ne vuole andare via.

Ci vuole il futuro, tanto, tantissimo, ma prima di tutto ci vuole la necessaria dose di malinconia per un mondo ancora non trovato, ma sempre in fieri, in lavorazione. Ci vogliono le lacrime e le emozioni dei grandi cambiamenti, delle scelte e la resistenza alle mille tentazioni di chi ti dice che e’ piu’ facile accomodarsi, abbassare la testa, far passare le decine di tempeste perfette che hanno attraversato questa City che si estende su tutto il pianeta, la City che siamo tutti noi, voi che avete avuto la pazienza di leggere le mie mille connessioni, voi che avete provato a capire come le parole si collegassero fra di loro. QUando quello che ha sempre legato i miei neuroni ed il cuore e’ sempre stata la certezza e la consapevolezza che, se ti viene affidato per miracolo o disgrazia, un posto dal quale poter osservare il mondo, nella sua interezza, nella sua ampiezza e nella sua sfolgorante scelleratezza, la torretta in cima alla cittadella della finanza, allora e’ quella complessita’ che provi a raccontare, a narrare. Che sia una complessita’ interna od intravista. Nella fatica delle mille regole da seguire, delle convenzioni sociali e professionali, nella poco rassicurante idea che tutto cambia talmente velocemente, ed un giorno tutti saremo come quei nomi delle lapidi e delle scritte sui muri dell’East End e delle chiese di Wren.

La fatica, ci vuole anche quella, ci vogliono le notti in bianco e quella sensazione di aver fatto qualcosa di utile, di aver salvato un frammento di mondo. E’ tempo di andare, lo sai, caro amico che leggi questo post. E spero che  alla fine di questo post non ti chieda dove andro’ io, cosa andro’ a fare, ma che tu ti chieda dove andrai tu stasera, domattina, anche se piovera’, o fara’ freddo, o, nelle mattine dell’estate italiane, le lenzuola cominciano a diventare un sudario. Spero che tu abbia carezze e saluti per tutti, e che tu abbia ogni giorno piu’ chiaro cosa farai, chi vorrai essere e come trovare quell’equilibrio fra sfide, casini positivi e quella serenita’ d’animo che accade quando si sa che si sta facendo la cosa giusta. O quel coraggio di ribaltare tavoli e sedie, se scoprirai che non appartieni ad una macchina virtuosa, ma ad un meccanismo inumano di generazione di valore monetario, ma non sociale. Allora, ne potremo parlare, perche’ tanto di quello che appare come finanza, alla fine, e’ societa’, persone, vita, sono volti e idee, che provano a camminare, ad emergere. E, nella mia idea distorta, forse, di finanza, esiste un ruolo dinamico, importante, per quello che ho fatto per quasi venti anni e che continuero’ a fare nei prossimi anni. And you know, it’s time to go.

Mia nonna Aida portava sempre con se’ un santino sul quale, dietro, aveva scritto a penna, nella sua calligrafia vintage, ‘Grazie per le mille piccole sconfitte quotidiane, perche’ parte della vittoria finale’. Solo questo ci rende liberi, utili alla causa del benessere collettivo dei nostri figli, saper affrontare le mille sconfitte quotidiane, la fatica, le delusioni, gli scocciatori, perche’ sappiamo, ora imparare ed insegnare ad amare il futuro. Ed e’ di futuro, come dicevo prima, nel passato di questo post finale, che voglio scrivere oggi, in questi giorni di primavera ancora fresca e bagnata, sulle sponde del Tamigi. Un futuro che dobbiamo ancora imparare e che dobbiamo cominciare ad insegnare, a spiegare sempre di piu’. Il futuro e’ fatto molto di destino, di fato, di caso, chiamalo come vuoi, lettore, ma e’ fatto anche di capacita’ di prevedere molte, tante cose, che non fermano i terremoti o le capocciate, ma possono permetterci di gestire meglio il presente. Bisogna insegnare il futuro, come si pianifica, come si prevedono gli scenari, come una vera e propria scienza da insegnare a scuola, assieme alla storia. Anzi, se il presente e’ un punto, una specie di separazione fra quello che e’ accaduto e quello che accadra’, dovremmo insegnare nelle scuole il futuro come scienza di quello che sara’ possibile fare, di come gestire le nostre aspettative, i nostri sogni ed i nostri ritorni, sociali, economici. E, forse, dovremo insegnare anche a rinnegare il passato, a non riconoscersi piu’ nelle tradizioni pelose, nelle idee che dovevano morire cento anni fa ed ancora ci fanno vedere il mondo attraverso categorie pensate da filosofi piccoli piccoli, nelle loro stanze in affitto. Rinnegare il passato, glorificare il futuro, quel futuro che forse non ci apparterra’ neanche, ma il sogno, la visione, quelli si, che ci possono appartenere. Il futuro non e’ altro che un sogno da mantenere tale e da evitare che diventi incubo.

In questi giorni di pulizie stagionali e di scatole da riempire, continuo ad interrogare le costole dei libri, quei libri che portero’ con me, oltre la Manica e scannerizzo gli scaffali della mia libreria, stracolmi di libri di economia e finanza, saggi di politica e scienze sociali e testi che parlano di musica, di grammofoni suonati dagli angeli e di mondi surreali, rime di poeti livornesi e di poeti fiorentini che fanno gli avvocati per diletto (Walter, questa e’ per te). Di fronte a me, secoli di pensiero economico e finanziario, ma, attuariale come sono, mi soffermo sui testi recenti, degli ultimi venti anni, da quando sono sbarcato su quella Luna che era per me Londra nella seconda meta’ degli anni Novanta.  Se avessi il bizzo di ordinarli cronologicamente e potessi assegnargli un indice di euforia ed ottimismo, noterei una crescita di esuberanza fra il 1995 ed il 1999, una battuta di arresto millenarista ed indotta da crisi russa ed argentina, per poi ritrovare una linea in crescita fino al 2007, quando, all’improvviso, qualcosa si interrompe, per sempre. Appaiono, fra teorici dei turbo-derivati, come soluzione ad ogni male, i primi critici di una crescita inflazionata e alimentata dal credito facile o, addirittura, una ‘commoditizzazione del credito’, ma, come ci raccontarono i rapidi fatti dal 2008 al 2009, era tardi per fermare lo scomposto aggiustarsi dei mercati e della liquidita’.

Per qualche anno, fino al 2010-11, la mia linea immaginaria di libri e monografie sarebbe occupata da Cassandre, da ‘Ioloavevodettoprimisti’, per lasciare lo spazio a decine di libri con lezioni sulle grandi crisi bancarie, Autodafe’ di banchieri centrali, traders, politici, fino a sfociare ad un florilegio di racconti orribili di quello che sarebbe successo. Ed ora, da qualche anno a questa parte, si assiste a due tendenze, da un lato un ritorno dell’euforia primigenia, di chi intravede un futuro per il capitalismo e i suoi bisogni, in terre lontane, diverse, dall’altro lato chi ha ricette nuove, o vecchie, ma riadattate ai tempi attuali. I teorici della decrescita, quelli della finanza sociale, quelli della supremazia dei consumi sull’investimento di lungo termine, quelli dello ‘Stato non e’ poi cosi’ malaccio’. Per non citare gli estremi comunicanti dei post-marxisti e dei teorici dell’accumulazione di capitale, perche’ alla fine in tutti e due prevale la logica dello stock, del capitale come monolite, da grattugiare alla bisogna secondo i marxisti e dentro al quale scavarci tunnel, sperando che la montagna regga, come i post-capitalisti.

Alla fine, quando ho provato a sommare, a concentrare in pochi concetti tutte quelle scatole di libri, di saggi, di working papers, di fotocopie ingiallite dagli elementi naturali, ne sono uscite poche parole, quelle che secondo me, nella mia infinita mancanza di saggezza, daranno immagine e forma al futuro, quel futuro a cui tengo, perche’ appartiene ai nostri figli e perche’ e’ giusto, solo giusto, che, come diceva un poeta a me molto caro, quel futuro sia il posto migliore dove saremo stati. Piu’ o meno. 

Saranno tempi veloci, iperdinamici, dove l’accelerazione che vedete ora sui mercati, nelle relazioni sociali e pubbliche ancora non appartiene a tutti, non appartiene ancora ai tempi della politica e della regolamentazione, ma ci arriveremo. Tempi al millesimo di secondo, dove contera’ e dove vinceranno quelli che sapranno non solo essere piu’ lesti degli altri, ma che abbiano a mente che ogni passo, per quanto veloce che sia, necessita di una strada sicura, sostenibile. Ed allora, la seconda parola e’ sostenibilita’, ripensare ai modelli di sviluppo e sociali dove sia possibile immaginarsi futuri a rotazione, futuri possibili e sempre migliori dei coacervi di passato che ci lasciamo ogni secondo alle spalle.

Non e’ detto che la strada intrapresa sia quella giusta, non siamo nati con il gene della perfezione. Allora, spero che il futuro sia un posto che sappia apprezzare l’incertezza, la valutazione in linea di massima, ergo, un futuro dove, soprattutto in Italia, vinca anche chi sbaglia, chi sbaglia, chi fallisce, chi cade. E, se per  motivi giusti, sia portato ad esempio, un esempio positivo, di giustezza, di corretta adesione alla estrema variabilita’ e velocita’ dei tempi. Che saranno fragili, insicuri. E fragilita’ e’ una parola che amo alla follia, che mi ripeto ogni giorno. La fragilita; dei vasi di porcellana, dei sentimenti e delle relazioni, la fragilita’ della ripresa economica e degli equilibri geopolitici. Senza la certezza che potremmo perdere tutto anche domani e dover ricominciare, non avremmo crescita. O non avremmo quella consapevolezza di attenzione e di cura delle cose che facciamo. Il futuro sara’ fragile, incerto, veloce, rischioso. Insomma, un futuro con  il carattere di mille madri. Perche’ il futuro apparterra’ al lato femminile del mondo, alla caparbieta’ ed alla capacita’ di amare e generare che non e’ roba da uomini, mi si permetta di dirlo. Il futuro e’ forse un continuo viaggio, nelle brume descritte dagli U2, verso casa, una casa che cerchiamo. A volte pensiamo di essere arrivati, di esserci accomodati. Ed e’ il motivo per il quale ho deciso di fermare questo blog, almeno per un po’. Perche’ ho deciso di ripartire, dalle mura della City, fuori attraverso il Barbican, verso le paludi attorno a Saint Thomas, verso Hoxton, e poi la campagna inglese, il mare del Nord, le tundre e le spiagge d’Europa. Partire per ammettere che il futuro e’, grazie a Dio, una transizione inarrestabile. Ed io non sono nessuno per fermarla. Ergo, voglio vagare nella corrente di questo futuro che mi aspetta, per un po’. Vi lascio la custodia della torre tartara in cui mi sono asserragliato per quasi due anni. Se vi va, rileggete, come sto facendo io, questo frammento di futuri incastonati che ora sono diventati un passato minimale, come uno sfregio di Banksy sulle mura della Guildhall. O come un fiore, uno di quei fiori che nascono di nascosto sulle balaustre dei palazzi in acciaio.

A presto, ci vediamo nel futuro.

“Te l’ho mai raccontanto di quando ho visto Dio? Ero in mezzo all’oceano Atlantico, su un traghetto dalla Francia verso l’Irlanda. Alle cinque di mattina, mentre albeggiava su un mare appena ostile, vediamo una nave di pescatori che arranca e sbuffa fra le onde di due metri. Nel mattino blu denso, ma sereno, senza nuvole, sentivamo il freddo alle ossa e la luce arancione della barchetta dei pescatori, in quell’immensita’ scura e solenne in eterno movimento, seguiva un percorso tutto suo, difficile, fragile, ma l’unico possibile. Ecco, ogni onda che il battello di pescatori schivava o solcava era un altro frammento di tempo deciso per sempre. Il futuro rimaneva incerto, ma il passato raccontava che era possibile farcela. Quel peschereccio era la provvidenza all’opera”

K. J. Okker – “Noi siamo qui, dove saremo anche domani”

SOUNDTRACK

U2 – A sort of homecoming

http://youtu.be/e9ylGXPEOAQ

Banda Ionica – Come l’aria

http://www.youtube.com/watch?v=gUX-kA1G4bw

Thin White Rope – Hunter’s Moon

http://youtu.be/ubpLK23RmEk

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