Giovine Europa nowGuerra mondiale: cent’anni dopo Sarajevo c’è chi la vuole per risollevare l’economia

28 giugno 1914: l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando è ucciso a Sarajevo per mano di uno studente serbo, Gavrilo Princip. Vienna fa partire un ultimatum che lascia alla Serbia poca scelta; il ...

28 giugno 1914: l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando è ucciso a Sarajevo per mano di uno studente serbo, Gavrilo Princip. Vienna fa partire un ultimatum che lascia alla Serbia poca scelta; il vecchio impero mitteleuropeo vuole la prova di forza; pensa di farcela. Un mese dopo è guerra, la Prima guerra mondiale.

A un secolo di distanza, ci chiediamo se una guerra mondiale sia ancora possibile. O viviamo in un mondo radicalmente diverso? Occorre stare attenti, perché non mancano somiglianze, magari vaghe ma preoccupanti.

Ci chiediamo inoltre se una guerra mondiale (o generale, globale, che dir si voglia) sia necessaria, se vogliamo avere una crescita economica forte e sostenuta. È un tema inquietante, persino agghiacciante, ma di cui si discute, spesso lontano dalle orecchie dell’opinione pubblica. Che cosa risponderebbe un economista?

Una prima somiglianza, tenendo conto di tutte le differenze storiche e culturali, è quella tra potenze emergenti. Nel 1914 si trattava soprattutto della Germania imperiale, uno Stato in prepotente ascesa industriale all’inseguimento di territori, risorse e colonie. Gran Bretagna, Francia e Russia si erano spartite Africa ed Eurasia e Berlino era rimasta a bocca asciutta. Nel 2014, a chiedere “spazio” sono invece soprattutto i Brics e altri Paesi in ascesa. La Cina ha acquisito un’enorme potenza industriale e commerciale, ma è ancora in ritardo sul piano finanziario e militare. Pechino sta promuovendo un sistema alternativo a quello Imf-Banca Mondiale e ha già raccolto intorno a sé 22 altri Paesi.

Inoltre, la Cina ha bisogno di una superborsa asiatica (una “Wall Street del Pacifico”) che funga da catalizzatore di investimenti, e di internazionalizzare il Renmimbi, cosa che sta gradualmente accadendo. Più delicato l’aspetto militare: come può Pechino difendere investimenti in tutto il mondo senza una marina all’altezza? Qui essa si scontra con l’ostilità Usa, che la tiene a bada (per ora) confidando in alleati regionali, dalle Filippine al Giappone. Quanto alla Russia, tenerla a bada, come si è visto, non è cosa semplice. Putin vuole controllare l’Eurasia e non accetta intrusioni in territori storicamente legati a Mosca – vedi l’Ucraina. E qui, nonostante il grande accordo sul gas, tensioni con la Cina stessa verranno certamente a galla. In generale, però, ciò che accomuna i Brics è la volontà di cambiare l’intero sistema Onu-Imf-Wall Street, come si vede anche dal comportamento dell’India, che continua a non lasciarsi addomesticare dagli Usa. Insomma, i Brics chiedono di più; l’occidente è avvisato. 

Una seconda somiglianza, per certi aspetti più preoccupante, è un diffuso ed irresponsabile ottimismo. Cento anni fa, l’attentato di Sarajevo non turbò più di tanto le cancellerie europee, e la stessa prospettiva di una guerra generale non veniva vista con particolare angoscia, anzi. I tedeschi millantavano di una blitzkrieg veloce e tecnologica, gli inglesi partivano da London Waterloo con un certo entusiasmo, e in Italia si parlava delle “radiose giornate di maggio”. Poi è finito tutto dopo poche settimane nelle trincee. Ancora meno convincente l’ottimismo americano dal 1918 in poi, con la retorica della democrazia, della Società delle Nazioni, del mercato; un ottimismo che è sfociato nella crisi del dopoguerra, nei fascismi ed in un’altra guerra mondiale. Anche oggi però c’è un pò troppo ottimismo. La crisi UE è data per finita…in effetti, una crescita dello 0,2% annuo è qualcosa di portentoso…quante volte è già stata vista la luce alla fine del tunnel? Poi vengono organizzate “rivoluzioni” per ogni colore, dall’Egitto all’Ucraina, con i risultati sotto gli occhi di tutti. Speriamo solo che voci su ‘guerre limitatè (Giappone-Cina, Nato-Russia, per esempio) rimangono tali…Per concludere, sembra che l’ottimismo diffuso dalle classi dirigenti e dai media occidentali sia assai irresponsabile e getti fumo negli occhi soprattutto a chi poi ne può pagare le conseguenze.

Appurato che una guerra su larga scala è ancora possibile, vale la pena chiedersi se sia “necessaria”. “Necessaria”, ben inteso, non sul piano morale, ma per dare una scossa all’economia, oggi più che mai a livello mondiale. È una domanda agghiacciante, ma legittima, così come è doveroso sperare che esistano alternative e la risposta sia dunque fermamente negativa. Il legame guerra-crescita è stato recentemente e provocatoriamente sostenuto dall’economista Tyler Cowen sul New York Times (13 giugno 2014). Cowen ritiene che solo grandi guerre siano in grado di stimolare domanda, crescita, innovazione e miglioramento tecnologico; si pensi alla Seconda guerra mondiale e anche ad internet ed alla Silicon Valley, precipitati della Guerra Fredda. Dobbiamo dunque arrivare a tanto e sperare in una guerra (almeno “fredda”) per rilanciare l’economia mondiale (e soprattutto occidentale)? Che cosa risponde la scienza economica? 

Se l’economia mondiale continua a segnare il passo le guerre però arriveranno da sè. Innanzitutto, una “guerra civile molecolare” – parafrasando Enzensberger – è già in atto, ed in forme drammatiche: una guerra tra poveri, diseredati, spesso persone illuse dalla globalizzazione che si ritrovano a combattere senza pane e senza ideali, al limite della criminalità. Lo stesso “terrorismo” sta diventando sempre più individualistico e opportunista, e difficile da distinguere dalla criminalità organizzata. Molta della violenza cui assistiamo quotidianamente ha radici sociali, non psicologiche. Poi ci sono guerre “macro”, tra Stati, che potrebbero tornare alla ribalta soprattutto nel nome dell’energia e delle risorse. Il Medio oriente è una polveriera, l’Africa non ha mai cessato di esserla, e potrebbe aggiungersi l’Asia centrale, se (in un futuro non immediato) Cina e Russia inizieranno a pestarsi i piedi. Non si tratta solo di gas e petrolio; anche l’acqua e il cibo potrebbero cominciare a scarseggiare.  

Cento anni dopo l’attentato di Princip, in Europa almeno viviamo più tranquilli. Cerchiamo però di non addormentarci, perchè il presente è difficile. L’argomento di Cowen ha un granello di verità, perchè il conflitto crea un’urgenza che porta a risolvere problemi, compresi quelli scientifici e tecnologici. Ma a quale prezzo? Non dimentichiamolo, finchè siamo in tempo.

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