Il gioco più bello del mondo. Ma anche uno dei business globali più sporchi, come commenta l’Economist della settimana scorsa che ad una partita di pallone sulla spiaggia di Ipanema dedica la copertina. La stima è che metà della popolazione mondiale – tre miliardi e mezzo di persone, includendovi donne e, soprattutto tantissimi bambini – guarderà almeno un tempo delle partite della Coppa del mondo che si gioca in Brasile. Il calcio è, in effetti, non solo uno dei simboli più potenti della modernità, ma anche una delle sua più efficaci metafore: della forza di certe aspirazioni capaci di attraversare povertà e guerre; ma anche delle contraddizioni di una globalizzazione che scavalcando i confini degli Stati finisce con l’essere governata– nello sport come in politica – da oligarchie sempre più opache e che rischiano di mandarla in retromarcia.
Le magliette del Barcellona o del Milan tra le tribù di guerriglieri bambini che tengono in ostaggio giornalisti occidentali e le televisioni accese sulle partite del Manchester City nei villaggi raggiungibili solo marciando per giorni nella foresta amazzonica: sono questi i segni del successo planetario dello sport più bello del mondo. In Italia, secondo Auditel, tra i quarantacinque eventi televisivi più seguiti dalla storia ci sono solo partite di calcio in compagnia della mitica conquista della Luna con il commento di Tito Stagno; ma anche in Germania tra i dieci eventi televisivi più seguitidi sempre ci sono nove partite della Coppa del mondo e al primo posto la semifinale in casa nella quale l’Italia divenne il peggiore degli incubi dei tedeschi. Il calcio è di gran lunga lo sport più importante dovunque ma un’eccezione importante esiste: non è riuscito a sfondare – nonostante gli sforzi fatti negli ultimi vent’anni – in nessuno dei tre Paesi – Cina, India e Stati Uniti – che da soli contano il 40% degli abitanti della terra e valgono l’80% della crescita della ricchezza mondiale. Solo gli Stati Uniti sono presenti alla Coppa del Mondo che finisce a Rio; l’India non si è mai qualificata e la Cina, autentica superpotenza delle Olimpiadi, non è mai riuscita a segnare neppure un gol nelle fasi finali. Certo anche negli Stati Uniti Ronaldo e Messi risultano essere tra i dieci campioni più famosi e la nazionale femminile è stata, persino, campione del mondo. In Cina, poi, sono 300 milioni le persone che seguono le partite della Serie A italiana da decenni e la squadra allenata da Marcello Lippi ha vinto la prima Coppa dei campioni asiatica vinta da un team cinese. Tuttavia, le previsioni che circolavano vent’anni fa quando la Coppa del Mondo celebrò a Pasadena negli Stati Uniti una delle sue finali più drammatiche, erano molto diverse.
Proprio i limiti che la globalizzazione del calcio trova nei Paesi nei quali doveva esplodere,sono il segnale più sinistro che il giocattolo può rompersi per ingordigia e incapacità di governare la propria crescita. Secondo il New York Times lo scandalo che sta per travolgere l’assegnazione delle due prossime edizioni della Coppa del Mondo alla Russia e al Qatar è sufficiente per chiedere di chiudere per sempre l’organo che governa il calcio mondiale, la FIFA, e mandare – almeno in pensione – il suo Presidente Blatter, che la stampa americana avvicina per longevità politica, gaffe e scandali al solo Berlusconi.
Ma il problema vero della FIFA così come di altri organismi che governano i grandi eventi dello sport mondiale come il Comitato Olimpico, è che sono nati cento anni fa per governare un movimento che era animato da dilettanti, e che mai hanno tentato di adeguarsi alla trasformazione del gioco in un fenomeno commerciale e culturale capace di muovere interessi economici e passioni su scala mondiale. È nell’ipocrisia che si è annidato il virus che rischia di mettere in crisi la globalizzazione del calcio. E non solo quella del calcio, perché in ciò esso riesce ad essere metafora potente di cosa avviene su un piano più serio ad una internazionalizzazione dell’economia, della tutela di diritti e della imposizione di doveri a cui non è mai seguita la costruzione di responsabilità, partecipazione su scala transnazionale.
Un po’ come succede per le grandi organizzazioni internazionali – dalle Nazioni Unite all’Unione Europea – anche per il calcio, le decisioni più rilevanti vengono assunte da un Presidente e da un Comitato esecutivo scelti da un’assemblea nel quale ciascuno dei Paesi che ne sono soci (duecento nel caso della FIFA) ha lo stesso peso: ciò spinge, costantemente, a trovare il minimo comune denominatore attraverso negoziazioni bilaterali senza fine che riducono qualsiasi possibilità di concepire una strategia.
Ma la FIFA non è un’istituzione vera e propria. Anzi, di fatto e nonostante il proprio statuto, è un ibrido tra il caso di globalizzazioni governate da istituzioni paralizzate dai veti e altri processi mondiali iniziati, guidati e gestiti – nel mondo Internet, ad esempio – da aziende private che ne traggono profitto.
L’illusione di governare il calcio come se fosse ancora quello di cento anni fa, produce il suo contrario: l’emersione di un’associazione di pochi individui che – splendidamente isolati dal mondo, in un villaggio in Svizzera – manovrando un bilancio di un miliardo di euro all’anno, quasi interamente provenienti dalla vendita dei diritti televisivi della Coppa, gestisce il più grande spettacolo del mondo come un proprio affare privato. Al Paese ospitante che spende miliardi in infrastrutture nuove (nel caso del Brasile quasi dieci), vanno le briciole del budget della manifestazione e tutt’al più la speranza di promuovere la propria immagine e il turismo.
La dimensione economica e simbolica dell’evento imporrebbe di ripensare seriamente ai suoi sistemi di governo: una possibilità sarebbe quella di dare a ciascun Paese quote pari al numero di iscritti alla propria federazione; ma anche di creare un altro organo separato da quello che gestisce l’affare del mondiale che, sia interamente dedicato a perseguirne gli eccessi.
Lo stesso vale del resto per l’Italia che negli ultimi dieci anni è scesa per risultati economici e sportivi – dal primo al quarto posto – tra i campionati più importanti d’Europa. Anche in Italia, la logica non può più essere quella del club privato e la giustizia sportiva non può più essere distinta da quella civile ordinaria che va applicata a club che fatturano centinaia di milioni di euro. Semmai -nel riordino dei ruoli – spetterà ai club di garantire la sicurezza in stadi che devono essere privati.
Il calcio può però ancora sopravvivere alla sua crisi di crescita perché è ancora un gioco. In fin dei conti quella del Costa Rica – un Paese di cinque milioni di abitanti che mette in fila i vice campioni d’Europa e i campioni d’America – è una favola. Una di quelle che può inventare solo gli effetti di una sfera che rotola verso un bambino che continuerà a sentire l’irresistibile istinto di palleggiarvi.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 Giugno