Il terzo giorno diventa il primo vero giorno. Ogni volta che vengo da questa parte del mondo mi rendo conto di quanto le prime 48 ore siano un enorme buco nero nella mia testa.
Il viaggio, le ore in aereo, le attese, gli scali, servono terapeuticamente a darmi il senso della distanza, dell’allontanamento. Dello stacco.
E poi scendi in questo clima e in questi colori che niente hanno a che vedere con la parola casa.
La stanchezza, l’umidità, il senso di estasi per la vacanza appena iniziata. Il tempo scorre e finalmente invece di correre rallenta. E la vacanza dopo due giorni lascia il posto al viaggio.
Smetti di leggere la guida, di pianificare, di cercare di vedere tutto quello che qui ti spingono a vedere.
Ogni volta che arrivo qui, a est del mondo, ho come l’impressione che tutto abbia più senso.
Sarà che a molti di loro, qui, é dato rinascere più volte, hanno infinite possibilità di fare bene e di fare male, e se faranno benissimo, andranno in un posto magico. Anche io vorrei avere più vite, più tentativi.
Ogni volta che arrivo qui il pensiero latente che nella vita reale mi assilla mentre corro da una parte all’altra si fa più vivo, più vero. Reale.
Viviamo di corsa, per accumulare, per avere, a volte invece di vivere sopravviviamo.
É un circolo vizioso a cui più passa il tempo, meno riesco a dare un senso.
Il terzo giorno inizia il viaggio. E allora invece di guardare cosa vedere e cosa fare, con 36 gradi all’ ombra, mi basta prendere una bicicletta, al caldo, senza aria condizionata e fare un giro.
Le donne ti salutano, ti stringono le mani, ti baciano perché hai ceduto loro il passo nel LORO tempio, durante la LORO preghiera. Rimani sulla porta, spettatore di qualcosa che vorresti capire ma non capirai mai. Sei nel nulla, o meglio, per il tuo senso delle cose sei nel nulla, in realtà sei proprio in mezzo al mondo. Nessun pennarello verde potrà mai riprodurre il verde della giungla, nessuna matita blu il blu di questo cielo. Nessuna foto, nessun documentario. Niente. Se non te in mezzo al mondo. Un mondo che fatica, un mondo che muore per serpenti, elefanti, ragni. Un mondo diverso e forse falsamente affascianante perché altro.
O forse no.
Ancora una volta ho preso l’aereo in direzione est, ancora una volta vengo ripagata dalla scelta.
E non é per le belle spiagge per la natura o per un senso labile di leggerezza.
É perché qui, ancora una volta tutto torna ai minimi termini. Tutto quello che a casa sembra sovrastarti qui acquista la giusta dimensione. O almeno, la dimensione che piace a me.
Il terzo giorno inizia il viaggio, ancora una volta alla scoperta di persone, di modus vivendi differenti, di occhi differenti. Ne migliori ne peggiori, solo altri.
A ricordarmi che è possibile anche vivere a piedi scalzi, o quanto meno con poche paia di scarpe. Il tempo qui é dalla mia parte. Va veloce quando voglio che acceleri, e rallenta quando cerco di fermarlo.
Oggi ho acceso una candela al tempio.
Ho espresso un desiderio, anche se non si fa e non c’entra niente con il rito.
Desidero che qui il tempo si fermi, che i bambini sorridenti di oggi abbiano cibo e acqua e assistenza sanitaria, ma che non desiderino e bramino l’occidentalizzazione forzata tanto agognata dagli adulti.
Desidero egoisticamente che questo posto resti intatto, migliore sí, ma intatto, perché i miei figli possano vedere che c’è qualcosa di speciale nel mondo. Qualcosa che non possono percepire dove vivono, dove corrono, dove vengono sballottati loro.
Quel qualcosa che si chiama vita. Sia essa manifesta in una cerimonia religiosa, nei rumori della giungla, nelle scimmie che ti camminano a fianco. Nei sorrisi delle donne. Nei giochi , senza giocattoli, dei bambini.
Terzo giorno, di nuovo qui a est.