Un fantino a stelle e strisce che cerca di spronare una enorme tartaruga: questa è l’immagine che l’Economist ha usato per l’ultima delle sue famose copertine, nel descrivere un fenomeno che sta capovolgendo molte previsioni sull’andamento dell’economia mondiale.
Gli ultimi numeri che arrivano dagli Stati Uniti rovesciano infatti i termini della Grande Preoccupazione che tanto agitava le cancellerie europee: l’incubo della “ripresa senza occupazione” rischia di trasformarsi in una prospettiva peggiore di “lavoro senza crescita” (growthless jobs) prima ancora che la crescita si sia materializzata in buona parte dei Paesi dell’Unione.
Mai così basso da sei anni a questa parte era stato il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti (6,1%); tuttavia nello stesso trimestre, il primo del 2014, il prodotto interno lordo ha improvvisamente messo la retromarcia cadendo del 2,9%. Segnali simili si colgono in Germania dove la produzione industriale stagna, mentre il tasso di disoccupazione è vicino ad un livello “frizionale”, ritenuto cioè non ulteriormente comprimibile. Sono segnali che dicono di una mutazione del modello di sviluppo. Una trasformazione alla quale le economie più forti possono adattarsi; per l’Italia – già debilitata da due decenni di non crescita – essa rischia invece di produrre attraverso un rallentamento della domanda internazionale, un’ulteriore caduta negli standard di benessere che ci porterebbe ai margini del mondo sviluppato. A meno che non troviamo la forza noi di scattare in avanti, mentre gli altri rallentano.
Se per mesi in Europa ci si era preoccupati che la crescita avrebbe consentito un rientro molto lento di una disoccupazione ancora al 12%, i dati che vengono dagli osservatori economici internazionali dicono che il problema più grosso è che la crescita stessa non arriva e che è l’intero mondo occidentale a doversi abituare a tassi di espansione della propria economia che sono diventati strutturalmente più bassi. In questo contesto aumentano i posti di lavoro, ma aumentano anche il numero di occupazioni che non consentono di arrivare a fine mese.
Il problema di fondo sta in quell’indicatore che gli economisti chiamano tasso di crescita potenziale e che è la velocità massima con la quale un’economia si può muovere nel momento in cui tutti i fattori produttivi – lavoro e capitale – fossero pienamente utilizzati. La trasformazione delle locomotive in tartarughe è spiegata da due ragioni. La prima è che aumenta il livello “normale” di non utilizzazione di lavoro e capitale per ragioni demografiche; ma anche perché, superati certi livelli di benessere le persone tendono a concedersi più vacanze e a prendersi meno rischi. La seconda è che diminuiscela produttività totale di quei fattori: essa, a sua volta, dipende dal funzionamento dei meccanismi di concorrenza attraverso i quali il sistema alloca le risorse disponibili alle imprese più efficienti; nonché dalla quantità di investimenti in conoscenza e progresso tecnologico che una società nel suo complesso fa.
È la voglia di lavorare e rischiare, la capacità di premiare chi merita, la spesa in educazione e in ricerca che fanno il tasso di crescita di lungo periodo di un Paese: ed è la caduta progressiva di questi valori che spiega il declino dell’Italia che negli ultimi vent’anni ha fatto da battistrada nella corsa al contrario dell’occidente verso la palude della non crescita. Proprio per essere stati anticipatori di una tendenza, sarebbe, tuttavia, disastroso che l’Italia non reagisse – prima e più di altri – ad un processo che ci può portare ad essere il primo Paese della storia contemporanea a passare da una condizione di sviluppo ad una di povertà.
Se gli altri Paesi sviluppati si devono adattare a crescere nei prossimi quindici anni ad un tasso del 2 per cento (che è inferiore di un punto a quello degli ultimi quindici), per l’Italia – come osserva l’OECD e come sa bene il ministro Padoan per esserne stato il capo economista – il pericolo è di dover crescere ad una velocità più che dimezzata, 0,7%. Se questa tendenza continuasse, in soli quindici anni, l’Italia si ritroverebbe a livelli di reddito pro capite inferiore a quasi tutti gli altri Paesi europei, compresi quelli dell’Est. Quindici anni: un arco temporale che corrisponde alla vita di un bambino che diventa adulto, e che è sufficiente per vedere quello che agli inizi degli anni Novanta era la quarta potenza economica del mondo trasformarsi in una periferia impoverita.
In effetti, quasi tutte le notizie negative sono legate ad altrettante opportunità. È vero che per nessun altro Paese del mondo si prevede – come per il nostro – un tasso di crescita di lungo periodo inferiore all’uno per cento; ma è altrettanto vero che per l’Italia il divario tra tasso di crescita attuale e quello che avremmo se utilizzassimo pienamente i fattori produttivi di cui siamo dotati è doppio (4,5 punti di PIL) rispetto alla media degli altri Paesi sviluppati. È vero che in Italia il tasso di occupazione è di dieci punti più basso rispetto alle medie europee; ma ciò dice che abbiamo una riserva di lavoro, soprattutto tra i giovani e le donne, molto più grande di Paesi che occupano il 70% della propria popolazione. È vero che rischiamo di diventare gli ultimi della classe; ma è anche altrettanto vero che per nessun altro Paese si stima un impatto così alto di riforme strutturali che – sempre secondo l’OECD – a regime possono portare il PIL italiano a valere un terzo di più rispetto ad uno scenario inerziale.
Facciamo le riforme, allora. Ma scegliamo quelle giuste, quelle alle quali dedicare energie politiche non infinite, perché in grado di mobilitare le risorse che sprechiamo da vent’anni. Partendo dalla consapevolezza di essere nella situazione di chi si ritrova a non avere, in questo momento, futuro. Di dovercelo inventare, come ci è successo altre volte nella storia.
Non ha futuro un Paese che spreme i propri cittadini come limoni e che non ha i soldi per fare la raccolta differenziata nei centri storici delle sue città più belle; che spende – dopo decenni di aggiustamenti – in pensioni tre volte di più di quanto investe in educazione; e per l’esercito in tempi di pace venti volte di più di quanto spende per il proprio patrimonio culturale. E allora giochiamoci le carte che abbiamo con intelligenza. Scegliamo bene le “specializzazioni” sulle quali puntare, come ci chiede la Commissione Europea in questi giorni, sessanta miliardi di euro di fondi strutturali. Abbattiamo la burocrazia che costa in tasse e vincoli che spezzano attività produttive. Paradossalmente, per sconfiggere la depressione, può valere di più – come sa chi ha fatto il Sindaco di Firenze – una trasformazione radicale dei meccanismi attraverso i quali (non) valorizziamo il turismo italiano, che difficili modifiche della Costituzione. Modifiche necessarie ma di sicuro non sufficienti.
Non è vero che i numeri sulla crescita non hanno un impatto sulla vita delle persone, come è stato detto commentando i dati del Fondo Monetario Internazionale che dicono che l’economia italiana sarà ferma anche quest’anno. Senza crescita e senza lavoro, l’intera classe media sparisce in una situazione di precarietà e ciò ha ovviamente conseguenze politiche. Abbiamo bisogno di dare segnali importanti di un cambiamento che riesce solo se mobilita tutti. Perché il pericolo vero è che il non sviluppo diventi una condizione di equilibrio dalla quale non riusciamo più ad uscire.
Articolo pubblicato su Il Messaggero e Il Gazzettino del 28 Luglio