Io di calcio me ne intendo quel poco che basta. Non ho una squadra del cuore, ad eccezione della nazionale marocchina in occasione di incontri particolarmente importanti e di una certa simpatia per la Juve che nemmeno so a cosa è dovuta. Tuttavia non sono refrattario alle magie dei Messi e dei Maradona. Quando però ci sono i Mondiali seguo con una certa regolartà il calcio, tifando l’Italia di solito ( nè jus soli nè jus sanguinis, certi migranti meriterebbero la cittadinza per lo jus tifosae, tanto si disperano quando perde l’Italia). E quando questa non gioca, il mio tifo va alle squadre del calcio emergente dei paesi poveri. Perchè ci mettono cuore, perchè hanno fantasia, perchè hanno fame di vittorie… perchè insomma in qualche modo mi ci riconosco.
C’è un aspetto, che di mondiale in mondiale si fa sempre più chiaro e che trovo particolarmente interessante: la varietà culturale dei giocatori che militano nella stessa squadra. Il momento migliore per cogliere tutte le implicazioni (di natura psicologica, sociologica, identitaria ecc) di questa varietà è quello subito prima del calcio d’inizio. Quando cioè le telecamere ci mostrano i giocatori allineati nel campo, con davanti ciascuno un bambino, le mani sul cuore a seguire con il labiale l’inno nazionale. Anche non conoscendo la lingua della nazione che al momento viene cantato, si capisce benissimo che i giocatori non hanno nessuna dimestichezza con quell’inno: i movimenti delle labbra infatti vanno in tutt’altra direzione rispetto a quanto viene diffuso dall’altoparlante. Qualcuno più coerente se ne sta con la bocca chiusa. Tutti però, al momento dell’inno, con un gioco di mascelle virilmente protese, cercano di ostentare un attaccamento alla bandiera, un amor patrio, una fedeltà alla maglia, un’abnegazione al dovere a dir poco commoventi. Invano si sperticano di convincerci che sono lì pronti a vincere o perire per il prorio Paese. Inutile dirlo, non sono credibili. Tutto lo pseudo eroismo nazionalista si limita al gioco di mascelle. A tradirli sono gli occhi: hanno uno sguardo perso, vacuo, indecifrabile… con un’ espressione che da sola rende tutta la liquidità Baumiana dell’odierna società. Direi insomma, senza giraci troppo attorno: uno sguardo ebete. Ma lo dico (ebete) però senza alcun riferimento moraleggiante riguardo le arcinote questioni come quella dello scarto evidente fra la bassa caratura intellettuale dei giocatori rispetto ai loro altissimi guadagni. Se ho usato il forte aggettivo è solo per speculazione dialettale: mi fa gioco per sottolineare quanto il nostro stato d’animo di noi (noi tutti) globetrotter della globalizzazione, in effetti abbia molte assonanze con l’ebetudine dello sguardo dei calciatori al momento dell’inno nazionale. Anche noi, a me sembra, un po’ prima di alzarci la mattina, mettiamo senza troppo convinzione una immaginaria mano sul cuore, con in sottofondo un immaginario inno a non so cosa, nel mentre ci accingiamo a giocare le nostre partire del quotidiano. E sempre con lo stesso sguardo, un po’ ebete, guardiamo il mondo di fuori, sentendolo un po’ nostro ma anche no. Per fortuna sono solo attimi, poi ci pensa il fischio dell’arbitro o, nel nostro caso, la sveglia a rompere l’incantesimo. Almeno spero. Perchè ho come l’impressione che per quanto questa benedetta globalizzazzione ci unisca a noi “diversi”, tenda anche a omogeneizzare i nostri sguardi. Che sempre di più somigliano a quelli dei calciatori durante l’inno nazionale.
4 Luglio 2014