Nascono prima le riforme o la flessibilità?
Da mesi ci sentiamo ripetere da politici di quasi tutta Europa che «l’Italia deve procedere a passo spedito con le riforme». E in Italia il capo del Governo Matteo Renzi rilancia ogni giorno questo leit motiv, con qualche differenza: «Faremo le riforme. Ma con maggiore flessibilità».
Che il Belpaese abbia bisogno di riforme strutturali, dalla Pubblica amministrazione troppo dispendiosa e spesso inefficciente, alla giustizia dai tempi abnormi e dalla miriade di processi in sospeso, tanto per citare qualche pillola di mal governo non vi è dubbio. Ma trasformare “le riforme” in una ideologia, solo attraverso la quale si otterrà un cambiamento è un errore grave per due ragioni.
Prima, l’ideologia che lo sostiene è quella neoliberista. E gli effetti di questa “libertà finanziaria” ha prodotto mostri economici e finanziari che spaventano e non poco per il potere accumulato in questi anni. Senza ricordare poi che sono stati gli stessi soggetti che hanno generato la crisi in cui siamo invischiati.
Seconda, non considerare le peculiarità dei paesi a cui certi metodi sono stati applicati è sinonimo di cecità. La rigidità nordica non collima con la scioltezza mediterranea. E i nostri paesi non sono abituati a risolvere i problemi in modo così netto e determinato. Serve una flessibilità mentale, più che economica. Non si potrà avere una nuova Europa, se non si capisce che l’effetto che alcuni politici europei vorrebbero evitare, e cioè quella crisi e quella povertà, che ad esempio i tedeschi hanno studiato sui libri di storia come motivo della caduta della Repubblica di Weimar e dell’ascesa al potere del nazismo, quella situazione economica sta in parte già mostrandosi nel nord del Mediterraneo. Non ci saranno spagnoli e greci per le strade di Madrid e Atene con carrettate di banconote come negli anni 20 ma ci sono migliaia di persone cadute in povertà, famiglie medie con appartamenti dal valore crollato di due terzi e disoccupazione che continua a crescere.
In tutto questo siamo in attesa di scoprire la risposta e lo scenario che il neocandidato alla Presidenza della Commissione Europea, Jean Claude Juncker intravede. Da questo, e solo da questo, dovrebbe scaturire l’appoggio, o meno, dell’Italia, uno dei paesi più grandi dell’UE, secondo tessuto industriale del vecchio continente e tra i pochi paesi, insieme alla Germania, in grado di vantare un governo con ampio consenso nel proprio territorio nazionale.
Ad oggi la candidatura dell’ex Premier lussemburghese è solo il frutto di una sponsorizzazione, quella fatta durante il Consiglio Europeo dalla campionessa del mondo Angela Merkel. La cancelliera è riuscita a spingere la sua candidatura fino a farla prevalere, trascinandosi dietro con un filo di scetticismo alcuni paesi e con l’unica palese, quanto importante, nota contraria del Premier inglese Cameron. In pochi credono che Juncker sia il candidato in pectore presentato dal Ppe alle elezioni di maggio. Staremo a vedere.
Gli sherpa governativi e le diplomazie partitiche sono già al lavoro. Ancora poco e sapremo se è nata prima la flessibilità o le riforme.Il Partito Democratico e Matteo Renzi nei prossimi giorni dovranno essere bravi a sciogliere i dubbi e le poche parole dette dall’indicato, pena la deriva “austeritarista”.