Vi sarà successo, sono sempre alcune coincidenze, alcuni episodi che capitano in un lasso ristretto di tempo e in qualche modo collegati tra loro, a spingerti a concentrare per un attimo l’attenzione sopra un tema e a permetterti di pensarci un po’ più a fondo.
Le coincidenze stavolta sono state il premio Strega a Francesco Piccolo per il suo “Il desiderio di essere come tutti”; uno scambio di chiacchiere con alcuni amici fuori dal tendone di una festa dell’Unità; il terzo capitolo de “Le catene della sinistra” di Claudio Cerasa. Il tema è – non è una novità su questo blog né per chi mi conosce – la purezza, di cui ho scritto altre volte.
Del libro di Piccolo ho già parlato tempo fa, prima che vincesse il meritato riconoscimento, provando a delineare un ritratto – criticabile e criticato – della figura di Enrico Berlinguer (da me mai conosciuto per ragioni anagrafiche), prendendo spunto proprio dalle categorie di vita pura ed impura che l’autore utilizza per parlare della traiettoria della propria esperienza e di quella della propria parte politica d’appartenenza. Uno degli oggetti del capitolo del libro di Cerasa, nonché il tema della fugace chiacchierata, è invece la posizione della coalizione di centrosinistra tutta (e del PD in particolare) sui referendum sull’”acqua pubblica” del 2011.
Nonostante non condivida a pieno e nella sostanza i rilievi di Cerasa alla scelta di votare due Sì all’abrogazione sui quesiti sull’acqua (cosa che peraltro io nel 2011 ho fatto), la sua analisi costringe a riconsiderare la questione da un’altra angolazione. Ovvero da quella per cui la netta presa di posizione a difesa dell’acqua pubblica da parte del centrosinistra in quel frangente fosse dettata per alcuni non solo – e non tanto – dalla convinzione che un determinato modello di governo dell’acqua fosse migliore di un altro per il cittadino, quanto (anche) dalla necessità di riaffermare la propria identità di difensori del pubblico, di paladini del bene comune, no matter what – come direbbero gli inglesi. Quasi come se in fondo il 30% d’acqua persa dalla rete idrica italiana ogni giorno non fosse un elemento da prendere davvero in considerazione nella decisione; quasi fosse un elemento trascurabile a fronte della necessità di testimoniare la propria incontaminata purezza sul tema. Quasi come se alla base della decisione non vi fosse davvero la volontà di risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico per cittadini e comuni con le casse vuote.
Ed è ciò che durante quel breve scambio di parole un ragazzo (che fa il vicesindaco in un comune medio-piccolo) mi conferma. A proposito del voto su quei due referendum mi dice che, esauritasi la fase di testimonianza, passata l’eco mediatica della vicenda, rimaneva intatto l’enorme problema del miglioramento della rete idrica, con l’amministrazione senza soldi. Per chi amministra, la purezza è un lusso che non ci si può permettere, mi ripete.
Ed eccoci al punto, dunque. La riaffermazione della purezza incontaminata della propria idea difficilmente finisce per risolvere i problemi concreti; difficilmente permette di incidere sulla realtà, riformandola e cambiando le cose. La purezza identitaria mal si confà alla democrazia, perché la democrazia è essenzialmente compromesso. Se si vogliono davvero cambiare le cose, si deve avere il coraggio di sporcarsi le mani.
Non è la prima volta che esprimo questo concetto; ma per la prima volta, forse, lo faccio di fronte ad un quadro politico leggermente mutato. Forse per la prima volta la sinistra ed il PD hanno (davvero) compreso che occorre abbandonare il ruolo di testimonianza della propria identità per scendere (ma forse sarebbe meglio dire salire) nella realtà, governarla e riformarla. Smettere di testimoniare e cominciare a governare. Smettere di restare puri e cominciare a cambiare le cose risolvendo i problemi dei cittadini. Perché in democrazia si rimane puri solo nella sconfitta. Per governare è necessario il compromesso (concetto ambivalente, ma che assume in questo caso una connotazione del tutto positiva, così come andrebbe rivalutato il concetto di “sporcarsi le mani”).
Forse, a sinistra, il PD ha imparato le lezioni del passato; forse le cose stanno cambiando, dicevamo. Prendiamo un esempio su tutti. I “puristi”, è risaputo, vedono nel cosiddetto Patto del Nazareno l’accordo con un pregiudicato eletto a padre costituente dal segretario del PD; io ci vedo la concreta chance di superare, dopo 65 anni, l’anacronistico bicameralismo ridondante all’italiana. Ci vedo un partito riformista che ha preferito sporcarsi le mani per venire incontro alle esigenze dettate dalla realtà che rimanere arroccato nella confortante cittadella della propria pura identità senza che la realtà venga modificata di una virgola.
Forse qualcosa sta cambiando. Io, almeno, ho questa grande speranza.