Quando mercoledì 13 hanno iniziato a trovare conferma le voci secondo cui Eduardo Campos, candidato del Partido Socialista Brasileiro alla presidenza, si trovava sul jet esecutivo precipitato a Santos, lo sgomento e l’incredulità con cui siti e social media brasiliani avevano accolto le prime indiscrezioni hanno lasciato spazio a un vero e proprio stato di choc.
Perché Campos, oltre a essere un politico innovatore, uno dei migliori della generazione post-dittatura che si appresta a prendere in mano le redini del paese e che tra gli altri annovera nelle sue fila i sindaci di Rio e San Paolo, Paes e Haddad, incarnava nei suoi stessi geni la battaglia per un Brasile più giusto. Nipote di Miguel Arraes, suo predecessore nella carica di governatore di Pernambuco, tra i primi ad essere deposto durante il golpe del 1964, poi a lungo esiliato in Algeria, dal nonno materno – che giovanissimo lo aveva voluto con sé, avviandolo alla carriera politica – aveva ereditato uno stile antitetico al coronelismo, quel misto di autoritarismo, clientelismo e populismo, comune a tanti leader dell’immenso Nordeste brasiliano, di cui ad esempio il maranhense José Sarney (presidente dal 1985 al 1990) e la sua famiglia sono tipici esponenti. Chi scrive lo conobbe qualche anno fa, quando arrivò a Milano a capo di una delegazione che promuoveva gli investimenti nel piccolo stato nordestino, già scelto dalla Fiat per costruirvi un impianto da 5 miliardi di euro, e pur in uno rapido scambio di battute era palpabile la sensazione di trovarsi al cospetto di un “presidenciável”.
L’onda emotiva causata dalla tragica scomparsa di Campos durerà giorni, forse settimane, e certamente sarà un asset strategico nel messaggio di chi lo sostituirà come candidato della coalizione riunitasi attorno a lui, e che ora ha 10 giorni per comunicare al Supremo Tribunale Elettorale il nominativo prescelto.
Anche nell’ora del dolore, però, nessuno ha dimenticato che il primo turno delle elezioni presidenziali, fissato per domenica 5 ottobre, ormai incombe, e che il successore praticamente scontato ha già nome e cognome, si chiama Marina Silva, finora sua vice nel ticket, che aveva ripiegato su questa opzione di seconda fila dopo che nell’ottobre scorso la Giustizia elettorale aveva rifiutato per un problema nella raccolta di firme la registrazione della Rede Sustentabilidade, la formazione da lei creata appositamente per ritentare la corsa alla presidenza, dopo l’exploit che nel 2010 l’aveva vista raccogliere un inaspettato 20% dei consensi.
La candidatura di Campos non era decollata, e gli ultimi sondaggi lo accreditavano di un 8% che – se in un paese continente poteva essere un buon viatico in vista di future prove – rischiava di inchiodare al palo la sua campagna. I maggiori sfidanti, l’uscente Dilma Rousseff, candidata del Partido dos Trabalhadores e soprattutto pupilla di Lula, e Aécio Neves, leader del Partido da Social Democracia Brasileira, avevano già iniziato gli appelli al “voto utile”, la prima nel tentativo di definire la sfida al primo turno, polarizzando la scelta degli elettori, il secondo nella speranza di veder convergere su di sé il consenso di tutti i delusi dalla fine dello sviluppo impetuoso degli anni di Lula.
Ma Marina – questo è il paradosso che la tragica fine di Campos squaderna sul tavolo degli analisti – gode sulla carta di un consenso più che doppio di quello di Campos. Gli ultimi sondaggi che ne avevano testato il gradimento le attribuivano ad aprile addirittura un 27%, che la collocava al secondo posto dietro Dilma. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma una cosa è certa, Marina è una figura atipica nel panorama politico brasiliano.
Più vicina di Campos alle posizioni del PT, dal quale del resto è uscita pochi anni fa proprio dimettendosi dal Governo Lula, nel quale il suo Ministero dell’Ambiente aveva ingaggiato una battaglia persa contro le tesi “desinvolvimentiste” di cui Dilma era la maggiore esponente, le idee politiche di Marina compongono un mix indefinibile, in un paese in cui tradizionalmente i partiti già si distribuiscono lungo uno spettro che è pochissimo sovrapponibile a quello cui siamo abituati, ancora imperniato sulla dicotomia destra/sinistra. Il suo radicalismo ambientalista, l’essere riconosciuta come l’erede di Chico Mendes le danno un carisma, in patria e fuori (nel 2012 il Comitato Olimpico Internazionale la scelse come portabandiera all’inaugurazione dei Giochi di Londra), oggi destinato a rafforzarsi ulteriormente per l’onda emotiva seguita alla tragica scomparsa di Campos. È lei che più di ogni altra può incarnare l’ansia di cambiamento che dopo 12 anni di governo Lula/Dilma, dopo 20 anni di diarchia PT/PSDB si fa strada in ogni strato della popolazione, e che ha alimentato le manifestazioni del giugno 2013. Eppure la sua stretta osservanza evangelica, se da un lato le assicura l’appoggio delle Chiese protestanti oggi in forte espansione in Brasile (ne abbiamo scritto qui), dall’altro la porta ad assumere posizioni fortemente conservatrici su tutti i temi etici (matrimonio gay, procreazione assistita, eutanasia) che oggi potrebbero renderla inadeguata a rappresentare tutta la società brasiliana.
Insomma la strada da qui al 5 ottobre improvvisamente si è fatta più complicata per tutti, e in queste ore chiusi nei rispettivi quartier generali gli strateghi di Dilma e Aécio devono reinventare da zero una campagna che si era avviata su binari sin troppo prevedibili.