Ma perché, in Italia, le riforme non si possono fare?
In Italia le riforme servono come il pane. Ma non si possono fare. Anche quando tutti sanno che sono necessarie. Non si possono fare. Chi prova a farle, poi, è percepito come una minaccia. Anche per questo non si possono fare. Quale folle si prende la briga di farle quando tutti, intorno a lui o a lei, sono convinti che non si possono fare e si adoperano, di conseguenza, per impedirle?
Prendiamo il recente caso della riforma del Senato e del bicameralismo. Tutti a parole si sono dichiarati a favore delle riforme. Ad esclusione di qualche cecchino giapponese, appollaiato sull’albero della foresta di tabu assembleari, nessuno ha detto di essere contrario. Nessuno (qualcuno si, veramente) ha detto che bisogna difendere lo status quo, l’attuale bicameralismo paritario. Ma la riforma che in agosto ha faticosamente superato lo scoglio del primo voto non va bene in ogni caso.
In primo luogo, per questioni di metodo. Si è detto: è giusto fare le riforme, ma non si fanno così, non è così che si riforma la Costituzione.
In molte occasioni, a partire dagli anni ’80, la classe politica ha cercato le vie brevi attraverso il lavoro (infruttuoso) di Commissioni bicamerali (guidate da Bozzi, Iotti, De Mita, D’Alema). Di recente, il governo Letta – per il tramite del ministro Quagliariello – aveva immaginato un percorso di deroga all’art.138 della Costituzione, con la istituzione di una Commissione bicamerale redigente, che avrebbe dovuto elaborare un testo da sottoporre al voto delle due Camere, e poi un referendum da tenere obbligatoriamente, indièendentemente dal quorum raggiunto in Parlamento. Questa procedura di deroga all’articolo 138 è stata contestata aspramente, ovvio. Subito è partito il piagnisteo dell’attentato alla democrazia. Un argomento del tutto infondato, come molti hanno spiegato, per motivi storici, di fatto e di diritto. Alla fine è tutto saltato per l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza di governo.
Successivamente, il governo Renzi ha riavviato la pratica, ma scegliendo con chiarezza la linea retta della procedura rafforzata di revisione espressamente prevista dalla Carta fondamentale. Anche così, però, non andava bene. Stavolta, però, il motivo dell’opposizione è cambiato: la riforma, si è detto, non può scriverla il Governo. Davanti alla riforma della Costituzione il Governo si astiene, deve pensarci il Parlamento. Ancora una volta argomento del tutto infondato. Non c’è scritto da nessuna parte che il Governo non possa avanzare delle proposte di riforma costituzionale: il Governo ha diritto di iniziativa legislativa, anche in materie costituzionali, come ogni singolo parlamentare, come i cittadini che presentano iniziative di legge popolare e come le Regioni. Allo stesso modo, non è scritto da nessuna parte che il Parlamento non possa respingerle.
Basterebbe ricordare, inoltre, che per almeno 30 anni il Parlamento non è riuscito a portare a compimento delle riforme che ormai sono divenute urgenti. Il sostegno del Governo a questo processo andava salutato semmai come un proficuo ruolo di iniziativa, di stimolo, di accompagnamento e di garanzia di un quadro politico fondato sul dialogo con l’opposizione. Cosa del tutto naturale in qualsiasi altro paese democratico alle prese con le riforme istituzionali, ma non in Italia. Dove le riforme appunto non si possono fare.
Ma le obiezioni non sono state soltanto giuridiche e formali. Ci sono anche motivi di opportunità per cui le riforme non si possono fare.
La prima è la fretta. Questa riforma è fatta di fretta, è raffazzonata e superficiale. Si è detto che la riforma è pessima perché il Governo è troppo rapido e rifiuta la necessaria ponderazione di problemi complessi che meriterebbero una discussione ben più lenta. Ora, il dibattito sulle riforme in corso è cominciato almeno negli anni ’80. La prima Commissione bicamerale per le riforme è del 1983. Se soltanto ci limitiamo a partire da qui – tralasciando altri fatti che pur meriterebbero una menzione – possiamo calcolare già 30 anni. In questo trentennio di dibattito si sono succedute, appunto, commissioni bicamerali, proposte le più varie (compresa la famosa tesi n.4 del programma dell’Ulivo che andava già in questa direzione e che oggi molti autorevoli esponenti della sinistra retrò hanno rimosso), tentativi riusciti in parte e tentativi del tutto falliti. Tutti comunque nella consapevolezza che superare il bicameralismo paritario, razionalizzare il parlamento e rendere efficiente il nostro sistema istituzionale fossero obiettivi ormai stramaturi. Adesso che, dopo 30 anni, cominciamo finalmente ad avvistare il traguardo, dovremmo rallentare perché altrimenti si farebbe una riforma frettolosa… Chissà, magari dovremmo discuterne per altri trent’anni. Nel frattempo, dopo anni di immobilismo provocato dai conservatori di tutte le specie,la riforma delle istituzioni che trent’anni fa era una necessità è diventata una vera e propria emergenza e, in Europa, il nostro sistema istituzionale è ormai uno dei più inefficienti e sgangherati.
Detto questo, la proposta del Governo sta seguendo – conviene ripeterlo – l’iter previsto dalla Costituzione: un iter tutt’altro che rapido, visto che prevede la doppia lettura di entrambe le Camere. E, alla fine, il referendum confermativo aperto a tutti i cittadini elettori. Lo stesso progetto del Governo è stato in più parti rivisto e modificato, dopo il passaggio in commissione al Senato. Ovviamente, sono rimasti dei paletti ben definiti. Se fossero saltati anche quelli non parleremmo di riforma, ma di una finzione retorica.
Ci sono altri motivi di opportunità per cui le riforme non si possono fare. Per esempio, “fare le riforme con un condannato”. Di sicuro, l’operatore sociale di Cesano Boscone non è esattamente il partner ideale. Ma l’argomento della ‘dannazione giudiziaria’ dimentica troppo facilmente che dietro quella figura ci sono, da un lato, milioni di elettori che non possono essere esclusi da un processo di riforma e, dall’altro, c’è un polo di centro destra che non può non contribuire – come in una qualsiasi democrazia matura e dell’alternanza del mondo occidentale – alla scrittura di un progetto di riforma. Non si capisce poi per quale ragione dovrebbero avere più titolo a riformare il sistema le forze antisistema che lo contestano, ma godono di una posizione di rendita proprio per il fatto che non cambia.
Ci sono, infine, gli argomenti ‘antropologici’. Per cui la riforma non va bene perché la fa Renzi che è un berluschino, ciarlatano, arrogante, ma che si è messo in testa?, e chi più ne ha più ne metta. O perché la fa la Boschi che, in fondo, è una ragazzina, ma vuoi mettere la Iotti?, è una fatina, incompetente e via elencando. Insomma, argomenti di non poco momento, degni del più classico rosicare italiota.
In sostanza, invece di apprezzare la prontezza e la determinazione dell’iniziativa, l’ampio dibattito che ha provocato, la discussione condotta in commissione e la prospettiva di un esito finalmente positivo per una stagione interminabile di chiacchiere senza sosta, tanta parte della casta politica, burocratica e giornalistica italiana ha deciso di urlare al colpo di stato.
In effetti, si sente uno strano sferragliare nei palazzi romani. Ma non è quello dei carrarmati dei golpisti, sembra più quello delle catene dei conservatori, quelle che scattano quando si parla di riforme e che legano il nostro paese ogni volta che tenta di spiccare il volo. Proprio vero: in Italia le riforme non si possono fare. Ma stavolta, chissà, magari si faranno.