La Confindustria francese fa una promessa alla Berlusconi: un milione di posti di lavoro. In Francia e in un periodo di crisi. Dicono che si può fare se si riduce il salario minimo, se si eliminano le 35 ore settimanali come diritto, se si tolgono giorni di ferie. Non è chiaro come abbassando gli stipendi l’economia possa andare meglio. Non è chiaro come alzando le ore di lavoro settimanali per dipendente sia possibile aumentare le assunzioni (semmai è più probabile il contrario). Non è chiaro, se si riducono le ferie, come i dipendenti possano aumentare la propensione alla spesa (nei giorni liberi capita che si faccia shopping, che si esca la sera, cose così). Tutto questo mentre il proprietario di Virgin, Richard Branson, decide che non è più utile timbrare il cartellino ma semplicemente dimostrare di aver raggiunto gli obiettivi preposti dall’azienda.
Comincia ad essere chiaro, invece, come questa mossa francese faccia il paio con il dibattito sull’articolo 18 in Italia. Lo statuto dei lavoratori garantiva il reintegro in azienda per i lavoratori, in caso mancasse la giusta causa sia per motivi economici che discriminatori. Durante il governo Monti fu ritoccato per eliminare il ricorso per motivi economici. Ora si vorrebbe rimettere mano all’articolo 18 nonostante lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi disse testualmente, durante il programma Servizio Pubblico di Michele Santoro nel ‘lontano’ 2012, le seguenti testuali parole:”Non ho trovato un solo imprenditore, in tre anni che faccio il sindaco, che mi abbia detto ‘io non lavoro a Firenze o in Italia perché c’è l’articolo 18’ (…) non c’è un imprenditore che ponga il problema dell’articolo 18, perché mi dicono che c’è un problema di tasse, burocrazia, giustizia (…) l’articolo 18 è un problema mediatico”.
Il gruppo dirigente che sostiene Renzi afferma che il vero argomento è la riforma del lavoro con il contratto a tutele crescenti al posto del classico contratto a tempo indeterminato. Questo cambiamento trasformerebbe i primi tre anni in un contratto con poche tutele (all’inizio quasi nulle) per poi avvicinarsi alle tutele dell’indeterminato. Una delle tutele consiste però proprio nel non licenziare senza giusta causa, con un giudice che deve stabilirlo. Senza questa norma anche con un contratto a tutele crescenti, superati i tre anni, sarà facile licenziare. Ci sarebbe comunque un indennizzo economico per chi viene lasciato a casa, una cifra che i critici della riforma di Renzi temono possa diminuire nel tempo con la scusa dei problemi economici.
Gli oppositori alla sinistra di Renzi, compreso il leader della Fiom Maurizio Landini, pretendono che vengano eliminate le forme contrattuali che hanno di fatto liberalizzato il precariato, per attuare questa riforma. Il rischio infatti è che venga eliminato il contratto a tempo indeterminato (ancora stipulato sebbene in piccola parte) per inserire qualcosa che diventa un’alternativa alle altre forme e non un obbligo all’uso a determinate condizioni.
Non è chiaro perché tanta attenzione all’articolo 18 quando il contratto fisso è in diminuzione, quando riguarda solo le aziende con più di 15 dipendenti (e molte fanno finta di non averne più di 15), quando è stato applicato per poche migliaia di lavoratori, spesso per motivi discriminatori e sindacali.
È chiaro invece che in un contesto lavorativo in cui, nel primo trimestre, il 67 per cento dei contratti e a tempo determinato e quasi la metà dei contratti non supera il mese di durata, il problema del lavoro in Italia non è di certo l’articolo 18. Immaginatevi se rimangono questi contratti: un giovane per anni vive di stage, contratti a progetto e a tempo determinato o partita Iva spesso falsa, riesce dopo anni finalmente a fare un contratto indeterminato ma è quello a tutele crescenti e a 35-40 anni rischia sempre di essere licenziato e di ricevere un risarcimento economico al massimo di poche migliaia di euro, per poi ricominciare da zero. Che tipo di progetto di vita può realizzare? Intanto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha, in un mese dal suo insediamento, indebolito i cambiamenti che aveva apportato Elsa Fornero per non abusare dei contratti a tempo determinato.
Francia e Italia hanno in comune governi deboli e guarda caso si sta tentando di fare riforme che in realtà peggiorano la condizione dei lavoratori anziché migliorarla, solo che l’Italia non ha salario minimo legale e le ore settimanali superano di fatto le 40. Pare che un’alternativa a cui sta pensando il governo sia ispirarsi alla Germania e ai minijob: contratti part-time liberalizzati e detassati. Il risultato è stato un tasso di disoccupazione basso, imprese che hanno retto alla crisi ma stipendi medi più bassi e con meno diritti per i neo-assunti. Sempre meglio che in Italia però. Se il minijob fosse collegato a un welfare per l’abitare, il trasporto pubblico, la formazione, un giovane potrebbe lavorare poche ore a settimana e coltivare il suo sogno professionale nel resto del tempo. Questo amplierebbe l’offerta (e conseguezialmente la domanda) di part-time, mettendo una toppa sul tasso di disoccupazione. I lavoratori potrebbero trovare un secondo lavoro part-time di modo che se ne perdono uno rimane sempre l’altro. Insomma, trasformare la necessità in virtù potrebbe essere un’idea virtuosa ma sarà questa l’intenzione del governo?
Poniamola come proposta, assieme ad un salario minimo orario, un welfare per le partite Iva (i cui introiti sono sempre più bassi) l’obbligo di pagare le prestazioni lavorative e i debiti in tempi ragionevoli, facilitare la burocrazia e ridurre le spese per aprire nuove imprese e start-up, facilitare i finanziamenti per le nuove avventure imprenditoriali, in particolar modo quelle che tutelano i diritti dei lavoratori detassando i premi retribuzione, favorire i contratti di solidarietà nel solco del ‘lavorare meno, lavorare tutti’ e rimodulare la tassazione su persone, consumo e imprese facendo pagare di più a chi ha grandi entrate e meno a chi ne ha poche.