Al passo coi tempi, la Suprema Corte di Cassazione pare abbia deciso di mettere on-line i propri precedenti, ovvero le quasi trentamila sentenze l’anno pronunciate. Non ci dilunghiamo sul fatto che una Suprema Corte che dovrebbe svolgere la funzione di orientamento nell’interpretazione, è costretta a far ciò alluvionando i repertori con un numero di sentenze eccessivo, e spesso al punto contraddittorio da negare la propria funzione ordinamentale.
Quella che è più significativa, perchè la dice lunga sulla confusione dei tempi, e sul destino di norme che si applicano all’Italia come le parrucche sulle teste dei calvi, è la risposta istituzionale.
Il Garante della privacy ha sancito che le sentenze per poter essere pubblicate on line non dovranno riportare il nome delle parti, per rispettare il diritto alla riservatezza.
Ora, il Garante della privacy, che garantisce un valore, un bene (the right to be let alone caro agli inglesi) che persino nel suo nome tradisce l’importazione e l’esterofilia del legislatore, dovrebbe spiegare perchè mai proprio negli ordinamenti in cui il diritto alla privacy è così fondamentale da non essere garantito da un’autorità, le sentenze, tutte le sentenze, sono conosciute, richiamate, invocate in giudizio e pubblicate sempre con il nome delle parti: Brown v. Smith, e via discorrendo.
Per capirlo, non servirebbero particolari sofisticazioni o ricerche. Basterebbe concentrarsi sul fatto che anche in Italia, e prima delle importazioni legislative, le sentenze sono sempre state pubblicate, ovvero rese fruibili al popolo, in nome del quale, si insegnava un tempo non solo alle Università ma nelle lezioni di educazione civica, la giustizia dovrebbe essere amministata.
Invece, troppe volte, un mal digerito diritto alla privacy è diventato, nel nostro paese, la scusa più semplice per negare il più basilare dei diritti, o meglio delle libertà. Quello di conoscere.