CREATIVINDUSTRIELa “fine dell’ufficio” a chi conviene?

  È di questi giorni la notizia che Microsoft avrebbe abolito l’obbligo di presentarsi in ufficio (in Germania, ma anche in Italia la sperimentazione è già in atto da tempo) considerando che, per l...

È di questi giorni la notizia che Microsoft avrebbe abolito l’obbligo di presentarsi in ufficio (in Germania, ma anche in Italia la sperimentazione è già in atto da tempo) considerando che, per lavorare bene, il luogo e l’orario non sono essenziali. Qualche giorno prima, aveva suscitato una certa curiosità la notizia ribalzata su molti quotidiani italiani secondo la quale il gruppo Virgin, di proprietà di Richard Branson, poliedrico e istrionico imprenditore, stia mettendo in atto alcuni cambiamenti rivoluzionari come l’abolizione dell’orario di lavoro e la libertà di scelta del periodo ed estensione delle ferie per i dipendenti. I quotidiani che hanno ripreso la notizia, da Repubblica, al Fatto quotidiano, al Sole 24 ore, hanno sottolineato che no, non è uno scherzo, e nemmeno un’idea così originale, perché d’altronde qualcuno già lo fa. Lo stesso Branson ha ammesso, infatti, di aver preso ispirazione da Netflix, l’azienda statunitense conosciuta per la sua capacità di innovazione. Nata con i servizi di noleggio di DVD e videogiochi via Internet, Netflix ha evoluto in breve tempo la propria offerta includendo, dal 2008, anche servizi di streaming online on demand, e dal 2011 produce contenuti originali (come la seguitissima e celebratissima serie TV House of Cards!).

            Le iniziative di Microsoft, Virgin e di Netflix sono innovazioni organizzative rese possibili dalla “trasformazione digitale” che permette a molti di lavorare da casa o comunque fuori dall’ufficio per alcuni giorni la settimana. Modelli di lavoro “agile” che rappresentano l’ulteriore passo evolutivo delle pratiche di flessibilità tra cui sono annoverabili il telelavoro, la riorganizzazione degli spazi in azienda e le politiche di elasticità degli orari, la riduzione dei viaggi di lavoro attraverso strumenti web e di videoconferenza, l’utilizzo di tecnologie mobili per la comunicazione e la collaborazione. Modelli di organizzazione del lavoro che mettendo in discussione i vincoli tradizionali (di orari, di luogo, di controllo) vanno alla ricerca di nuovi equilibri fondati su una maggiore responsabilizzazione dei lavoratori.

            Modelli e pratiche che certo stanno emergendo anche in Italia. Vodafone, la stessa Microsoft, Unicredit, Nestlé sono alcune fra le realtà che sperimentano vari approcci di “lavoro agile”. Sperimentazioni che partono dal presupposto che l’attenzione debba concentrarsi sui risultati che ognuno realizza, non su quante ore si resta in ufficio o dove si decide di lavorare. Iniziative che pur nelle loro differenze di riferimenti e intenti sono accumunate dal mettere in pratica modelli flessibili più morbidi rispetto al telelavoro (che prevede che il lavoro sia svolto sempre al di fuor dell’organizzazione) continuando a prevedere la presenza delle persone negli uffici, ancorché modulata sulle esigenze del giorno o della settimana.

Il “lavoro agile” è dunque espressione del macro-cambiamento definibile come “trasformazione digitale” anche se probabilmente non è l’innovazione tecnologica in sé a determinarne la sperimentazione (svolgendo semmai una funzione abilitante, nonché imprescindibile). Il “lavoro agile”, infatti, non è esclusivamente un prodotto dell’evoluzione tecnologica ma il tentativo di risposta a sollecitazioni che vengono dall’ambiente (sia esterno, che interno alle organizzazioni) che possiamo tentare di semplificare e riassumere così:

·      maggior complessità del lavoro e allargamento delle mansioni;

·      crescente bisogno di lavoro collaborativo (anche con “team remoti” o “virtuali”, con persone che lavorano allo stesso progetto pur essendo a molti chilometri di distanza);

·      approcci gerarchici messi in discussione a favore di sistemi più collaborativi e orizzontali;

·      nuovi valori sociali (ricerca di “senso” nel lavoro, richiesta di maggior autonomia e di bilanciamento lavoro/vita ecc.);

·      cambiamenti demografici (in conseguenza alle riforme, le persone trascorrono più tempo della loro vita al lavoro; la presenza di generazioni multiple nelle organizzazioni e l’ingresso sempre più significativo della cosiddetta Generation Y, che porta con sé riferimenti, abitudini cognitive, comportamenti e competenze spesso molto differenti rispetto alle generazioni precedenti);

·      attese da parte della clientela (flessibilità, servizi disponibili 24/7);

·      sostenibilità (una maggiore riflessione/sensibilità sui costi e gli impatti ambientali delle sedi di lavoro, del recarsi al lavoro, dei viaggi ecc.).

Gli obiettivi perseguiti dalle pratiche di “lavoro agile” possono essere molteplici e variegati, anche considerando che la prospettiva cambia a seconda che lo si guardi dal punto di vista delle organizzazioni o delle persone. In estrema sintesi, i vantaggi perseguiti dalle organizzazioni che sperimentano il “lavoro agile” potrebbero essere così elencati:

·      risparmio nella gestione degli uffici: le aziende potrebbero risparmiare nella gestione degli uffici (che sarebbero più piccoli e con la condivisione delle scrivanie), nei buoni pasto, nei rimborsi per spostamenti e trasferte. E neppure sarebbero costrette ad assumersi l’onere di attrezzare a casa dei dipendenti postazioni ad hoc col computer. 

·      riconoscendo gli stili di vita sono cambiati, e con essi anche il lavoro, il “lavoro agile” promuove la diffusione di una cultura del lavoro per obiettivi;

·      affermazione di una cultura collaborativa – Si lavora per obiettivi, e in più c’è l’abbattimento dei confini fisici e simbolici fra diversi livelli gerarchici e fra le funzioni organizzative.

·      maggiori motivazioni delle persone, che si sentono di essere riconosciute e rispettate nella loro totalità;

·      aumento della produttività e della qualità del lavoro – come conseguenza (ipotizzata e auspicata) – delle maggiori motivazioni.

Per la persona, i vantaggi ipotetici portati dal “lavoro agile” dovrebbero essere che:

·      attutisce la frustrazione di chi oggi ha difficoltà a trovare quadrature soddisfacenti tra vita privata e lavoro (tema caro non soltanto alle donne e che non riguarda solo chi ha figli ma più in generale il bilanciamento tra vita e lavoro);

·      autodeterminazione dei ritmi di lavoro – Passo importante verso il riconoscimento dei diversi stili di lavoro e verso una certa autodeterminazione dei ritmi di lavoro che può ridurre lo stress e aumentare la motivazione dei lavoratori.

Esistono poi anche altre categorie di beneficianti del “lavoro agile” che sono l’ambiente, la città e più in generale la comunità. La riduzione degli impatti ambientali e sul traffico sarebbe, infatti, significativa.

            Il “lavoro agile” come futuro auspicabile, quindi? Come evoluzione? Come sorte “gloriosa e progressiva” del lavoro in cui le organizzazioni mettono al centro le persone? Forse, a patto di tenere a mente che la complessità è molta ed è dunque necessario tenere conto delle differenti implicazioni. A cominciare dalla tecnologia che del “lavoro agile” è elemento abilitante – e quindi imprescindibile – ma che allo stesso tempo potenziale portatrice di criticità. Alcune indagini confermano, per esempio, la sensazione diffusa che la tecnologia, e il poter essere sempre e ovunque connessi, renda difficile il buon bilanciamento fra vita e lavoro. Mentre le tecnologie che connettono al lavoro permettono una più ampia gamma di opzioni riguardo a quando e dove svolgere il lavoro, la stessa connettività porta con sé la disponibilità costante a lavorare.

La pervasività della tecnologia nei processi di lavoro, di comunicazione interpersonale e di apprendimento comporta anche il rischio di fa emergere situazioni di tecnostress (per un’introduzione al tema si veda post Le diverse dimensioni del tecnostress dovuto alla necessità di un continuo apprendimento e aggiornamento delle competenze; di un sovraccarico cognitivo derivante dalla grande mole d’informazioni da gestire (la cosiddetta Information Fatigue Syndrome) dal multitasking e – non ultimo – dal multiscreening. Quest’ultimo aspetto è collegabile al fenomeno della cosiddetta “consumerizzazione dell’IT” e delle iniziative di “bring your own device” nelle quali è la preferenza dell’utente e non l’organizzazione a guidare l’adozione delle tecnologie in azienda. Gli schermi si moltiplicano quindi, non solo più PC aziendale e in qualche caso smartphone ma anche tablet, notebook e palmari di ogni marca e foggia entrano a far parte degli strumenti per svolgere l’attività quotidiana. Tuttavia, molte di queste tecnologie non sono state costruite tenendo presenti i requisiti aziendali e così in alcuni casi viene demandata alla persona la manutenzione, l’aggiornamento software, la gestione della sicurezza della privacy, e la scelta delle applicazioni per la sincronizzazione e l’aggiornamento dei dati aziendali. Ciò aggiunge la richiesta di alte competenze a quelle già richieste, come per esempio di saper utilizzare con dimestichezza le tecnologie e le pratiche “social” per il lavoro collaborativo a distanza, per la condivisione di informazione ecc. 

            Altre criticità riguardano il non facile coordinamento tra persone che richiede la piena fiducia tra chi supervisiona e chi svolge le mansioni più operative. Questo aspetto è anche legato alla necessità di affermare la cultura della performance rispetto a quella della presenza. In Italia, per esempio, vi è una cultura molto orientata agli aspetti relazionali, esiste di conseguenza una convinzione generalizzata che le persone che «fisicamente meno presenti» hanno meno probabilità di essere promosse – si potrebbe in un certo senso dire “lontani dagli occhi, lontani dal cuore”. Ciò però non rischia di ri-creare uno squilibrio di genere? Se questa opportunità viene colta solo dalle donne, non rischiamo che gli uomini rimasti in azienda abbiano più possibilità di fare carriera?

Altre criticità sono legate alle minori opportunità di ricevere feedback informali e più in generale alla diminuzione delle occasioni di apprendimento e anche di modelli cui ispirarsi (specialmente per i più giovani). Questi aspetti sono ovviamente determinati anche dal livello di “isolamento” in cui il lavoratore si viene a trovare, che dipende dalla frequenza della presenza, dai sistemi a disposizione e dal contesto aziendale.

            Un altro aspetto critico riguarda il fatto che spesso la flessibilità di tempo e di luogo di lavoro altera le aspettative, portando con sé l’idea che occorra fare di più e facendo aumentare così la probabilità di ore di lavoro più lunghe e – sorprendentemente – producendo un senso di diminuita flessibilità. Il rischio è che la troppa flessibilità potrebbe portare al troppo lavoro, al non staccare mai. Il rischio è, appunto, che il “lavoro agile” si trasformi in una “trappola flessibile”. Se guardiamo agli esempi citati all’inizio di Virgin e Netflix, in cui sta ai dipendenti decidere quando hanno voglia di prendersi qualche ora, un giorno, una settimana o un mese di ferie, con la sola consapevolezza che lo faranno quando si sentono al cento per cento fiduciosi che la loro assenza non danneggerà il lavoro, e naturalmente nemmeno la loro carriera, si potrebbe obiettare che, con una regola simile, nessuno potrebbe mai andare in ferie neanche per un momento ­ altrimenti sarebbe lecito sostenere che l’azienda può andare avanti benissimo senza quel dipendente e dunque tanto varrebbe farne a meno.   

È necessario quindi che via sia una profonda riflessione su cosa si intenda per valutazione dei risultati e sul come valutare quando un risultato o un progetto è portato a compimento e come impedire che gliene subentri immediatamente un altro. Riflessione complessa che esclude a priori molti settori produttivi, come la catena di montaggio, i call center ecc. Il che fa emergere un’altra domanda: il “lavoro agile” potrà essere messo in pratica solo ed esclusivamente per i lavoratori della conoscenza? Tornando alla Virgin, per esempio, solamente il personal staff di Branson, circa 170 persone in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e non tutti i numerosi dipendenti del gruppo Virgin, prenderanno parte alla sperimentazione (anche se l’ipotesi è che poi la sperimentazione, nel caso porti a risultati positivi, si allarghi).

            Come si evince, dunque, il tema del lavoro agile e delle sue applicazioni è molto complesso e richiederebbe di sperimentare modelli di riferimento che ancora non ci sono. Qualcosa però ci viene già suggerito. E cioè che è la cultura che può fare la differenza fra il successo del “lavoro agile” e il suo fallimento, non tanto la tecnologia (o la legislatura). Senza una cultura della responsabilità, dell’autonomia – una cultura che guardi ai risultati più di quanto valuti i comportamenti – il “lavoro agile” rimane solo uno strumento ipotetico.

Il “lavoro agile” pone l’accento, infatti, sull’importanza del rapporto di fiducia, sulla necessità della definizione condivisa degli obiettivi e della modalità di valutazione. Senza un reale commitment del management e dei vertici aziendali questi strumenti di cambiamento rischiano di rimanere una sperimentazione circoscritta e fine a se stessa. Senza una costruzione di senso condiviso è difficile che il cambiamento culturale accada. E il cambiamento in Italia dovrebbe partire da una maggior autonomia nello svolgimento del lavoro e da una più ampia diffusione del lavoro di team e della cultura collaborativa: aspetti nei quali l’Italia è in coda in tutti gli indicatori europei. 

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