Si sentono tante cose in questi giorni. Rumors che Renzi potrebbe guidare Forza Italia, che potrebbe governare con Berlusconi, che sono pronti a sostituirlo con un nuovo presidente del Consiglio, che la minoranza Pd sia pronta a fare una scissione. Possiamo dire tante cose in questo momento politico così confuso, oppure cercare di analizzare la situazione.
Il contesto è che Renzi è presidente del Consiglio con una maggioranza non sua, una situazione che non aveva inizialmente previsto. Una situazione in cui si è trovato anche a causa dei suoi avversari politici. Ha promesso molte riforme ma finora ben poco si è visto e molte proposte sono criticate, spesso anche a ragione. Ogni tanto propone un argomento al circo mediatico su cui dibattere qualche giorno (dall’articolo 18 al tfr e chissà che altro nelle prossime settimane), molto utile a guadagnare tempo e a limitare l’attenzione sulle cose (non) fatte. Un esempio su tutti è il non rispetto dei pagamenti della pubblica amministrazione nei tempi stabiliti dallo stesso presidente del Consiglio in tv.
Matteo Renzi si è costruito un’identità da giovane outsider, rottamatore della vecchia e inconcludente casta, uomo di sinistra che piace alla destra, l’innovatore e il rinnovatore. Voleva presentarsi come leader di coalizione senza un netto colore politico, vincere le elezioni con numeri tranquillizzanti e passare alla storia. Invece si è ritrovato a dover conquistare la segreteria del Pd contro Cuperlo, il quale rappresenterebbe, ad “occhi rottamatori”, la vecchia guardia sempre ostile verso l’ex sindaco di Firenze. Poi la sostituzione di Enrico Letta al governo nonostante gli disse in tv (e poi su Twitter) #enricostaisereno. Tra un mese e mezzo Renzi avrà governato quanto il suo predecessore, sostituito perché era troppo lento nel fare le riforme. In realtà Renzi avrebbe preferito aspettare e candidarsi alle elezioni (così come fino ad un certo punto aveva sempre promesso) ma un eventuale successo di Enrico Letta avrebbe potuto portare il Pd a ricandidarlo e far sfumare il sogno di Matteo a Palazzo Chigi.
Ora quindi, di fronte alla reputazione di rivoluzionario pragmatico, dopo i soldi dati ai lavoratori dipendenti (quelli passati alla storia come gli 80 euro) e il 40 per cento alle elezioni europee, il fiorentino deve tener alta la sua bandiera e trovare un modo per uscire dall’impasse di questa maggioranza non sua. Sostenuta dall’ex partito di Monti e dal Nuovo Centrodestra di Alfano insieme all’Udc di Casini, senza contare che la maggioranza dei parlamentari Pd non risponde direttamente al gruppo legato a Renzi.
Finora il presidente del Consiglio ha potuto contare sull’immagine positiva di sé, l’idea che non ci sia alternativa al cambiamento oltre a lui, l’accordo con Berlusconi (il patto del Nazareno) che ufficialmente sarebbe stato stilato per fare le riforme (dopo sette mesi non pervenute) ma che non chiarisce i suoi contenuti controfirmati dalle parti.
La minoranza Pd (che in parlamento è ancora maggioranza) non può trovare un’alternativa alla presidenza del Consiglio perché manca una maggioranza possibile. Il Movimento 5 Stelle ha sempre dimostrato di non voler appoggiare nessun governo che non sia il suo, Berlusconi è uscito dal governo Letta e difficilmente potrebbe appoggiare un esecutivo con il Pd come fu con Monti, soprattutto se progettato da quelli che ha sempre definito i soliti comunisti. La scissione è un’opzione ma ogni volta che se ne è parlato non si è mai avverato. Innanzitutto perché sarebbe difficile trasferire masse di voti fuori dal Pd, ne sa qualcosa Sel. Lo scoglio più grande è l’enorme consenso di cui ancora gode Matteo Renzi, per cui uscire dal Pd rischierebbe l’effetto Fini con il Pdl.
Le uniche incognite rimaste in gioco sono quei parlamentari (da Ncd a eletti di Lega e Forza Italia) che non vogliono riandare al voto perché temono di non essere rieletti, preferendo quindi il completamento della legislatura.
Probabilmente D’Alema&co stanno pianificando il “piano-copia”. Renzi è arrivato dove è arrivato vincendo le primarie per il partito, in un momento in cui il suo consenso era aumentato (coinvolgendo anche elettori di centrodestra) e quello del gruppo che appoggiò Bersani era basso. Quindi ora il lavoro da fare, prima che Renzi riesca a incastrare pure Napolitano e portare l’Italia al voto in primavera, è lo stesso: logorare l’immagine di Renzi, demotivare il suo elettorato e motivare il proprio, pretendere primarie per la segreteria del Pd denunciando come il partito non possa essere gestito così, candidare un volto che possa a questo punto contendere la leadership del rottamatore (Civati è in pole position). Preso il partito diventa più semplice controllare il dopo, anche perché esiste ancora la norma che il segretario è il candidato che il Pd deve proporre alle elezioni (in prospettiva di un bipartitismo ancora non avvenuto). I dati diffusi sulle iscrizioni nel Pd crollate in un solo anno vanno proprio in questa direzione.
Renzi può evitare questo processo solo alzando il livello dello scontro al punto che non ci sia più alcuna maggioranza possibile dopo la sua e andare al voto presto, incolpando gli altri dell’accaduto e delle mancate riforme che lui dice avrebbe voluto fare e in fretta. Non solo: deve cavalcare temi per raccogliere consenso ulteriore e superare il 45 per cento, un’operazione fondamentale in caso non si riesca ad approvare l’Italicum e si andasse al voto con un sistema elettorale proporzionale con sbarramento al 4 per cento ma senza premio di maggioranza, quello approvato dalla Consulta. È una corsa contro il tempo, mentre gli italiani aspettano quelle importanti e necessarie riforme per migliorare il Paese. Roba da far rimpiangere il governo Monti, che pure ha dato troppa attenzione ai conti e poco ad altre questioni.
Più complicato è capire la strategia di Berlusconi in questo momento, considerando che c’è in gioco il patto del Nazareno, di cui sono oscuri i punti di accordo tra il leader di Forza Italia e quello del Pd.