“Que muera, cabron”, pronuncia l’anziano signore brizzolato con la camicia bianca a maniche corte e l’immancabile sigaro in bocca. “Hombre, you don’t understand”, gli ribatte un uomo sulla quarantina, in perfetto inglese con un pizzico di accento ispanico. “The guy’s already been dead for years, they just won’t tell us”, ovvero “è già morto da anni, solo che non ce lo dicono”. Oggetto della discussione, il lidér cubano Fidel Castro. Il quale, anche se non più al potere, anche se vecchio e malato, è tuttora protagonista di numerose diatribe dalle parti di Calle Ocho.
Il quartiere di Little Havana, così come la città di Miami, ha vissuto da vicino, spesso sulla propria pelle, molti degli episodi principali della guerra fredda e della storia del novecento. La rivoluzione castrista con conseguente migrazione di massa verso le coste della Florida, il fiasco della Baia dei Porci senza la copertura aerea promessa dal governo USA agli insorti, la Crisi dei Missili di Cuba in cui si sfiorò la guerra nucleare. Una sorta di Berlino tropicale, fulcro delle relazioni internazionali tra le super potenze.
Da qualche settimana, da queste parti, a qualche chilometro dalle spiagge di South Beach, non si parla d’altro che della prospettiva di apertura di nuovi rapporti tra Stati Uniti e Cuba, proposta resa pubblica dallo stesso Presidente USA Barack Obama lo scorso dicembre. Una svolta probabilmente epocale, dopo decenni di embargo e tensioni diplomatiche tra i due paesi – durante i quali non sono mancate occasioni in cui servizi segreti Usa hanno tentato di assassinare, alle volte in maniera comica, il dittatore Fidel Castro – che cambierebbe il corso della storia. Buona parte della comunità internazionale, così come esponenti di spicco della galassia politica americana, si sono espressi favorevolmente nei riguardi di questo possibile nuovo corso.
Non tutti, però, sembrano pensarla allo stesso modo. E i più pessimisti, in questo caso, sono i “domino players”, i giocatori di domino del Maximo Gomez Domino Park, vicino a Calle Ocho, proprio qui a Little Havana. Una nutrita comunità di cubani giunta sul suolo statunitense durante o dopo l’instaurazione del regime comunista, o nella migrazione di massa dal porto di Mariel nel 1980, che si ritrova per giocare a domino e discutere di attualità. A differenza di una parte consistente delle nuove generazioni di cubano-americani nate e cresciute a Miami, che vedrebbero di buon occhio l’avvio di relazioni più amichevoli tra USA e l’isola che dista solo 90 miglia, la maggior parte degli esponenti della comunità di Little Havana, a cominciare dagli esuli con qualche anno in più sulle spalle, che a Cuba sono nati e che il nome di Castro non vogliono sentirlo neppure nominare, si dicono fermamente contrari. E non vogliono che l’embargo si tocchi. “Finché al governo ci sono i fratelli Castro”, affermano, “los Estados Unidos non devono trattare”. In centinaia, a dicembre, si sono dati appuntamento al Jose Marti Park e nei pressi del famoso ristorante Versailles, armati di cartelloni e di bandiere cubane e a stelle e strisce, per esprimere il loro dissenso. “Traditore, traditore”, cantavano, riferendosi a Barack Obama.
Ma al di là delle differenze di vedute all’interno della comunità cubana negli Stati Uniti, e delle frange più anti-castriste residenti a Miami e dintorni, ciò che accomuna tutti quanti riguardo a questo argomento è che, embargo o no, sanzioni o meno, soft diplomacy o hard diplomacy, ciò di cui ha – disperato bisogno – Cuba, da lungo tempo a questa parte, è di una buona e sana dose di libertà e di democrazia. Quel genere di libertà e democrazia che sono presenti a Little Havana, e che permettono ai suoi residenti di incontrarsi, discutere di qualsiasi argomento, magari protestare. Oltre che giocare a domino, ovviamente.