«Questa è la loro guerra. Una guerra lunga, che dovranno combattere con intelligenza, pazienza, fermezza. Erano molti, ieri nelle strade di Parigi, i nuovi Europei. Nati dopo il 1980, informati e connessi, con una debolezza, forse: pensare che la pace fosse per sempre. Che una volta conquistata, la si potesse amministrare, come un condominio».
Inizia così, nelle pagine centrali del Corriere della Sera di oggi, lunedì 12 gennaio 2015, l’editoriale di Beppe Severgnini a commento della grande manifestazione di ieri a Parigi, un momento storico dell’Europa del XXI secolo, che passerà alla storia come icona, grazie a quella foto che ricorda tanto il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (se non fosse che ritrae il Primo, di Stato, e che dietro, in verità, non c’è nessuno).
«Questa è la loro guerra», scrive Severgnini. «Questa è la nostra guerra», leggo io insieme a migliaia di altri che come me sono nati negli anni Ottanta. E penso che si sbaglia perché questa guerra non l’abbiamo voluta noi, ma anche che ha ragione perché, volenti o nolenti, siamo noi a combatterla.
Se è vero che la maggior parte dei jihadisti è nata, come noi, negli anni Ottanta — Coulibaly e uno dei fratelli Kouachi erano proprio miei coetanei, nati nel 1982 — è soprattutto vero che chi li ha addestrati, chi li ha indottrinati, chi ha sciacquato via dai loro cervelli la ragione per sostituirla con l’odio e con l’intolleranza ha l’età dei nostri padri. E d’altronde, che età hanno i governanti che stanno facendo fronte alla minaccia? Che età hanno i comandanti in capo degli eserciti, che età hanno i leader di tutto il mondo in questo momento? Be’, a parte Matteo Renzi, gli altri sono ben più vicini ai nostri padri che a noi. E che età hanno i commentatori principali, che età hanno gli opinionisti, i direttori dei giornali che vengono intervistati? La risposta è sempre la stessa: sono i nostri padri.
Questa sarà la grande prova della generazione degli anni Ottanta, continua poi Severgnini, una generazione che, secondo lui, è stata illusa per troppo del fatto che la pace fosse dovuta e acquisita, senza capire che le cose bisogna conquistarsele e difenderle, consolidarle anno dopo anno. Ma anche qui, si sbaglia.
Se c’è qualcuno qui che crede che la storia si sia fermata e che la pace sia ormai un fatto acquisito non siamo certo noi. Non siamo noi i Fukuyama che predicavano la fine della storia negli anni Novanta.
Noi siamo quelli che sono diventati maggiorenni nel 2001. Abbiamo compiuto i 18 anni tra Genova e le Torri gemelle. Siamo quelli che negli anni Novanta leggevano No Logo e urlavano per le strade che così non si poteva continuare così, che l’ingiustizia non era mai stata così diffusa al mondo e che sarebbe presto scoppiato un gran casino, che il futuro sarebbe stato amarissimo, molto più amaro di quanto che ci avevate fatto credere fino a quel tempo e di quanto voi stessi credevate.
E cosa facevate voi, i nostri padri, in quegli stessi anni? Ci guardavate con tenerezza, come si guardano i cuccioli che addentano un osso per la prima volta pensandola una preda. Ci guardavate sorridendo, pensando probabilmente a quanto fossimo teneri a voler anche noi il nostro ’68, la nostra guerra mondiale, a voler anche noi un posto nella storia.
E proprio mentre ci accarezzavate con tenerezza e vi godevate gli ultimi scampoli di quella pace perpetua che avevate inventato per noi come si inventano le favole per allietare il sonno ai bambini — una pace di cui noi, seppur ragazzini, già vedevamo la fine — proprio in quei giorni, la storia che pensavate di aver archiviato riprendeva a muoversi — non si era mai fermata, in realtà, anche se a voi piaceva pensare così — e a Stoccolma la polizia sparò su di noi, e lo fece anche a Genova, poi caddero le Torri e generali americani della vostra età mandarono un bel po’ di marines della nostra età a morire inutilmente, a seminare una parte di quella violenza che oggi ci è tornata a raffiche di kalashnikov.
La nostra grande prova non è questa, è un’altra, e non saprei se voi genitori la potete capire fino in fondo. Sì, perché riguarda anche voi ed è strano che non ve ne rendiate conto.
La nostra grande prova è affrontare il presente, una giungla, dovendo ringraziare voi, i nostri genitori, per i privilegi che ci avete portato in dote: i privilegi che ci hanno permesso, negli anni, di studiare, di viaggiare, e di accettare salari che sono — quando va bene — un terzo o un quarto di quelli che voi avreste guadagnato, alla nostra stessa età, per gli stessi lavori.
Questa è la grande prova della nostra generazione. È vivere il conflitto sociale nel modo più irrisolvibile e doloroso che si possa immaginare: nei salotti delle vostre case.
Perché è così: quello che voi — i nostri genitori — avete vissuto nelle piazze degli anni Sessanta e Settanta, noi lo viviamo ogni volta che veniamo a cenare da voi. E non lo possiamo risolvere, è impossibile. Come diavolo si fa a non amarvi? Come si fa a non ringraziarvi per il resto della vostra e della nostra vita per le opportunità che ci avete dato? Senza di voi non saremmo nulla. Come si fa a dirvi che quei soldi che ci passate per pagare il dentista, per comprarci dei vestiti nuovi, per trasformare una vacanza in Liguria in una ai Caraibi ci servono come l’ossigeno ma, nello stesso tempo, ci feriscono come coltellate. Con che parole si spiega un paradosso simile?
La nostra grande prova non sarà questa guerra, sarà ritagliarci un posto vero, da adulti, in questa società di eterni ragazzini, sarà farvi smettere di chiamarci «giovani», sarà guadagnarci da vivere in questa giungla, in questa società che, per la prima volta nella storia, è in mano a una generazione che si è creduta eterna e che ora, che inizia a invecchiare, non sa farsi da parte e lasciare spazio a chi segue.
Noi siamo la prima generazione che insegna ai propri genitori come interfacciarsi con un mondo nuovo, quello digitale, che non tanti sessantenni capiscono.
Noi siamo più simili ai nostri nonni che ai nostri padri, e pagheremo molto caro — molto più caro di così — gli errori in buona fede dei nostri genitori.
Ma siamo anche una generazione unica, che ha avuto l’onore e l’onere di vivere e di incarnare un passaggio epocale. Noi siamo l’unico ponte che c’è tra l’epoca analogica e quella digitale, un ponte che potrebbe cambiare veramente il mondo.
Una sera di qualche mese fa ero a cena con amici, tra cui uno, carissimo e mio coetaneo, che è nato a Scutari, in Albania ed è musulmano. Abbiamo fatto l’università insieme, mi ha insegnato il francese e quella sera mi disse una cosa che mi torna in mente ora. Una cosa semplice, ma molto vera, almeno nella mia esperienza: noi siamo la prima generazione, mi disse, che indipendentemente dal luogo di nascita, dalla lingua, dalla religione, dal modo di vestirsi, quando si incontra per il mondo si capisce e ha qualcosa da dirsi.
Quando Severgnini vede le foto di gruppo dei leader mondiali a Parigi pensa alle foto dei soldati in Normandia o di quelli nelle Ardenne. Pensa alle foto dei suoi genitori e ne parla come chi quelle foto le ha viste nei comodini di qualcun altro.
Quella foto però, né uguale a tante simili che noi, nati negli Ottanta, abbiamo già da quindici anni nei nostri comodini. Sono quelle che ci siamo scattati insieme a ragazzi provenienti da tutto il mondo — quei nostri coetanei di cui parlava il mio amico — alla fine di cene in cui si parlavano 5 lingue, di vacanze studio, di erasmus, o di viaggi esotici che abbiamo potuto fare grazie ai soldi dei nostri genitori. Bel paradosso eh?
L’Europa libera l’hanno costruita i nostri nonni, non i nostri genitori. E se ora questi ultimi ci dicono che questa è la nostra guerra, be’, forse ci sta anche bene, ma non ci dicono niente di nuovo. Perché questa guerra è la nostra dall’inizio del millennio, da quando vi imploravamo di non mandarci a combattere in Iraq o in Afganistan, da quando vi chiedevamo in ginocchio di porre fine alle ingiustizie che stavano arricchendo l’1% del mondo a scapito dell’altro 99%.
Sì, Severgnini ha ragione, questa per molti versi è la nostra guerra, ma sapete una cosa? La nostra generazione vi stupirà, perché questa guerra ce la aspettavamo da tanto, almeno da quando, seduti sulle gambe dei nostri nonni li ascoltavamo raccontare la resistenza, le fughe per mezza Europa, le prigionie, il dolore del perdere amici, la rinascita del sopravvivere. E sì, volevamo anche noi avere un posto nella Storia.
Questa è la nostra guerra? Ok, ma ora dateci spazio.