«Una visione impressionante di Milano notturna: oltre il Naviglio, rovine di vecchie case sventrate, con le finestre vuote, occhieggianti, e angoli colmi di un buio pauroso. Dietro quell’ammasso di macerie, splendenti sagome dei grattacieli: il Galfa, il Pirelli…Sono immagini stupende: sfolgorano di luci come giganteschi diamanti, come colossali fantasmi pietrificati». La Milano che viene fuori dalla Lettera 22 di Pier Paolo Pasolini è questa. Macerie e grattacieli. Rovine e diamanti. Paura e splendore.
Può sembrare strano immaginare lo scrittore bolognese all’ombra del Duomo. Ma, negli anni Cinquanta, Milano è il simbolo del Nord europeo, moderno e sviluppato: un pezzo d’Italia che non può mancare nel puzzle del poeta. Pasolini la conosce per la prima volta nel luglio 1955 quando, per oltraggio al pudore, siede al banco degli accusati della IV sezione del tribunale assieme al suo editore Livio Garzanti. Il libro incriminato, «Ragazzi di vita». «Nella pubblicazione si riscontra carattere pornografico», si legge nella segnalazione della Presidenza del Consiglio che, come voleva la legge, aveva ricevuto il manoscritto prima della pubblicazione per vagliarlo. «Pasolini è il più grande poeta italiano. Riesce a fare della denuncia sociale una poesia», lo difende Giuseppe Ungaretti in una lettera inviata ai magistrati. L’episodio si risolve con un nulla di fatto (gli imputati saranno assolti e il libro dissequestrato) ma segnala alla società italiana un artista “pericoloso”, da tenere sotto mira: è solo il primo della lunga lista di querele e processi cui il poeta sarà sottoposto.
Quattro anni dopo il processo, Pasolini si ritrova ancora tra le strade di Milano, questa volta per motivi di lavoro. «Un certo T. – racconta nell’articolo Cronaca di una giornata su Paese sera – mi chiede di sceneggiargli un film sui Teddy Boys. Vado a Milano, passo venti atroci giorni in un alberghetto a lavorare come un cane, lavoro ancora altri atroci venti giorni a Roma». T. è il produttore Renzo Tresoldi e il titolo provvisorio della sceneggiatura è Polenta e sangue. Pasolini accetta, affascinato com’è dagli studi sul disagio dei ragazzi delle periferie metropolitane. «Gli si chiedeva – racconta Franco Zabagli, che con Walter Siti ha curato il “Meridiano” Mondadori su Pasolini – un tentativo di documentazione sociologica della nuova gioventù milanese, molto simile a quello che pochi anni prima aveva fatto e avrebbe continuato a fare con quella romana».
Secondo la testimonianza del cugino Nico Naldini, Pasolini lavora alla sceneggiatura con «molta energia, lunghe sedute di lavoro e di documentazione». Fedele al realismo documentario, avvia febbrili ricognizioni della città accompagnato da alcuni “teppistelli”. Con loro gira per le vecchie bettole milanesi, i trani, per night club e desolati bar di Corso Buenos Aires. Perlustra ritrovi giovanili tra i biliardi fumosi di San Siro e i bar di Porta Venezia, frequenta balere di periferia. Viaggia per l’hinterland, tra Novate e Bollate.
Ne viene fuori, con una scrittura del tutto sperimentale, un’inchiesta in presa diretta dove la protagonista assoluta è la grigia e fumosa Milano-Metanopoli. La nebbiosa, come suggerisce il titolo definitivo della sceneggiatura. Una città sfolgorante di luci, d’intermittenze veloci, costellata di grattacieli all’ombra dei quali si nascondono rovine, macerie e abbandono. «Pasolini è una contraddizione», sottolinea Zabagli. «È proprio la contiguità tra macerie e novità a generare la sua poesia». Pasolini è il primo a intuire che nella Milano del boom economico, che galleggia tra passato e futuro, c’è una periferia abbandonata, una terra di nessuno. Il primo a studiare i semi di quella violenza che di lì a poco avvilupperà l’Italia nella spirale del terrore.
Milano, anni Cinquanta
Vittime della corsa al nuovo benessere, i Teddy Boys. Giubbotto di cuoio nero, sciarpetta e ciuffi impomatati, sono ragazzi piccolo borghesi, figli di ex fascisti, che sfogano le loro frustrazioni in una anarchica protesta contro la Milano bene. «Siete non infelici, ma molto infelici», li redarguisce ne La Nebbiosa l’omosessuale Gino, alter ego dell’autore. «Odiate tutti i vostri padri, e il loro mondo, cioè la società: ma non li odiate abbastanza perché, in fondo, siete come loro…». «I giovani milanesi – sostiene Zabagli – erano per Pasolini il retaggio di una povertà che andava esaurendosi e evolvendo verso una modernità approssimativa, precoce». Girano in moto, sognano James Dean, cantano Elvis Presley e ballano le canzoni di Adriano Celentano (non a caso “Teddy Girl” è il titolo di una canzone del “molleggiato” del 1959, eseguita anche da Giorgio Gaber e Enzo Jannacci). Rubano, picchiano, stuprano. «È una gioventù insofferente e incattivita dalla società capitalistica – scriverà Pasolini su Nuovi Argomenti – traviata da sciocco paternalismo, da valori superficiali».
Nel 1965 ritroveremo Milano nel docu-film “Comizi d’amore”: l’Italia è nel pieno del miracolo economico e lo scrittore la gira da cima a fondo «sperando – sostiene la sua voce fuori campo nel film – di scoprirvi i segni di un contemporaneo miracolo culturale e spirituale». A Milano Pasolini intervista gli operai e i giovani che volteggiano nelle balere. Le domande sono provocanti: il sesso, l’omosessualità, le reazioni sulla legge Merlin che nel 1958 decretò la chiusura della case di tolleranza. Le risposte sono univoche: il sesso è un tabù, gli omosessuali «ambigui da correggere», la legge Merlin «una gran boiata». A sei anni dall’esperimento Nebbiosa, la conclusione di Pasolini è la stessa: «L’Italia del benessere materiale viene contraddetta da questi italiani reali, ipocriti. Persino gli operai di Milano sono uniti in una protesta prebiscitaria contro una legge moderna e democratica come la Merlin».
da “Comizi d’amore”
Nel 1968 ritroveremo ”l’ipocrisia borghese” nel pasoliniano “Teorema”: film incentrato su una famiglia altolocata milanese che nasconde “sotto il tappeto” vizi e perversioni.
Sul set di “Teorema” con Silvana Mangano
Nell’ultimo periodo della vita del poeta, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, Milano annega nel sangue: scoppiano le bombe a Piazza Fontana, l’anarchico Giuseppe Pinelli cade dalla finestra della questura, il commissario Luigi Calabresi viene assassinato in via Cherubini. Nel 1973, nel pieno degli anni di piombo, l’allora direttore del Corriere della Sera Piero Ottone propone a Pasolini di collaborare al quotidiano di Via Solferino. La possibilità di intervenire nelle polemiche di attualità, raggiungendo un numero elevatissimo di persone e scuotendole dai “torpori” del conformismo, spinge lo scrittore ad accettare. Radicale, polemico, provocatorio, i suoi articoli saranno inseriti nella sezione Tribuna Aperta, spesso preceduti dalla cauta precisazione del giornale: «Su queste colonne intervengono voci delle più diverse tendenze, invitate a esprimere intorno a temi di attualità il loro giudizio, che non sempre rappresenta quello del Corriere». L’apertura al dibattito si rivela un esperimento riuscito: le vendite del giornale aumentano sensibilmente. Pasolini continuerà a trattare, con veemenza crescente, i temi della mutazione antropologica, dei giovani, del progresso, del conformismo fino al giorno in cui viene ucciso sulle spiagge di Ostia. È il 2 novembre 1975.
Verrebbe da chiedersi cosa penserebbe della Milano da bere di oggi, paradigma dello sviluppo del Paese: «Per Pasolini – prova a rispondere Zabagli – era già intollerabile il livello di modernità che aveva raggiunto l’Italia quando fu ucciso. Oggi troverebbe nuove e più forti ipocrisie in questa città, forse studiando il fenomeno dell’immigrazione».