Hic sunt lupiQuando l’anima si stanca della vita

Il suicidio è l’atto estremo in risposta a un pessimismo nei confronti della vita, una resa di fronte alle difficoltà. La persona che medita sul suicidio non sempre sta soffrendo di depressione, m...

Il suicidio è l’atto estremo in risposta a un pessimismo nei confronti della vita, una resa di fronte alle difficoltà. La persona che medita sul suicidio non sempre sta soffrendo di depressione, ma si sente vuota, spenta e vive senza dare senso alla vita. Dietro la facciata della normalità, egli nasconde un’insoddisfazione totale, non crede più in se stesso e negli altri e si mostra cinico nei riguardi degli eventi della vita. Egli vive come in uno stato di silenziosa disperazione; la vita non è più per lui come un dono, ma come un vano affaccendarsi prima della morte. In questi casi non c’è una conclamata disperazione, ma uno strisciante andamento esistenziale poco esaltante. La persona che pensa al suicidio si sente disperata, senza alcuna via di uscita se non quella di porre fine alla propria vita,non prevedendo alcun miglioramento nel prossimo futuro. Il vero scopo del suicidio non è tanto il morire, ma il volersi liberare dal dolore lancinante che ha invaso la propria vita. Nonostante le sofferenze che può causare, non si dovrebbe comunque giudicare una persona che è arrivata a questa estrema conseguenza. Una vita non si può spiegare, ma si può certamente aiutare o migliorare se si cammina insieme, toccando i tasti giusti senza essere troppo penetranti e precipitosi. Uno dei fattori scatenanti è quello della sfera socioculturale, troviamo dunque la mancanza di sostegno sociale che crea un senso di isolamento, lo stigma associato alla necessità di aiuto. In questo caso la persona non accede alle cure psichiatriche perche’ ha paura di essere additato come ‘folle’ sebbene le cure disponibili potrebbero assicurargli un buon controllo sui suoi disturbi che non hanno nulla in comune con la follia (intesa dalla gente comune).
Secondo Durkheim, noto sociologo del XX secolo, in molti casi potrebbe verificarsi il fenomeno della cosiddetta anomia, ossia il rifiuto o l’assenza delle norme, situazione che può verificarsi in quelle società fondate sulla divisione del lavoro in cui non si pone la giusta solidarietà sociale ed in cui il soggetto può ritrovarsi improvvisamente dinanzi ad un affievolimento dei propri valori, fino ad arrivare alla scomparsa definitiva, causata dal repentino cambiamento delle condizioni sociali, impossibili da accettare. Ma come possiamo definire realmente il suicidio?
Ne parliamo con il Dr. Luigi Attademo, neo-specialista in psichiatria e consulente psichiatra presso il Ser.T. Di Foligno.

– Come si definisce in campo psichiatrico il suicidio? 
– Il suicidio è un grave problema di salute pubblica. Ed è un problema mondiale, se consideriamo che ogni anno circa un milione di persone muore di suicidio nel mondo. Il suicidio è l’atto di uccidere se stessi, cioè è l’atto di causare intenzionalmente la propria morte. E’ un’estrema complicanza di molti disturbi mentali (ma non solo) e in ambito psichiatrico figura come una delle più comuni emergenze mediche. Nonostante sia un fenomeno umano che ritroviamo presente in modo diffuso nelle diverse epoche e culture, una sua definizione compare solo nel XVII secolo: l’abate Des Fontaines utilizzò il termine suicide per definire “l’atto con cui l’uomo dispone definitivamente di se stesso”.

Il suicidio (o suicidio completo) deve essere tuttavia distinto da altri tipi di condotte suicidarie, come il suicidio mancato (un tentativo di suicidio, con evidente intenzione di porre fine alla propria vita, dove la non riuscita dell’atto è spesso legata a eventi fortuiti), o il parasuicidio (tentativo di suicidio a bassa letalità, cioè presenza di un comportamento autolesivo ma con intenzionalità autosoppressiva non del tutto chiara o opinabile). L’ideazione suicidaria, invece, è la presenza di pensieri legati al suicidio senza passaggio all’atto.

– Cosa scatta nella mente delle persone che sono intenzionate a commettere un gesto estremo, ovvero, quali sono i sentimenti che si rincorrono prima di arrivare a questa decisione? 
– Non è facile rispondere a questa domanda. Il malessere è realmente personale e una sua generelizzazione è difficile, nel senso che è difficile che il malessere possa essere decodificato in modo univoco e onnicomprensivo. Sappiamo però che ci sono tre caratteristiche nello stato mentale della persona suicida:

a) l’ambivalenza: la maggior parte delle persone hanno sentimenti contraddittori circa l’idea di suicidarsi. Molte persone suicide in realtà non vogliono morire ma sono afflitte da un tormento psichico che, se risolto, fa allontanare i pensieri e i propositi suicidari;

b) l’impulsivitá: il suicidio è un atto impulsivo, e l’impulso di commettere il suicidio è transitorio, generalmente innescato da eventi negativi nella vita quotidiana. Risolvere queste crisi potrebbe risolvere almeno l’impulso;

c) la rigiditá: gli individui suicidi hanno pensieri drastici, sentimenti e azioni ristretti; non sono in grado di considerare altre soluzioni al problema. Molti individui suicidi spesso inviano segnali, a volte affermano di “voler morire”, di “sentirsi inutili”. Sono richieste di aiuto da non ignorare.

In generale, i sintomi associati a un alto rischio sono: umore depresso, agitazione, inquietudine, insonnia, disperazione, scarsa autostima, ritiro sociale.

– Quali sono o quali potrebbero essere i fattori scatenanti? 

– I fattori scatenanti sono numerosi. E’ preferibile comunque parlare di fattori di rischio suicidario. Il principale fattore di rischio è la presenza di una malattia mentale: circa il 90% dei suicidi può essere associato a qualche forma di disturbo psichiatrico. Tra i disturbi psichiatrici, i più frequenti sono i disturbi dell’umore (disturbo depressivo maggiore o disturbo bipolare), ma anche l’alcolismo, la dipendenza da sostanze, il gioco d’azzardo patologico, e i disturbi di personalità caratterizzati da comportamento impulsivo-aggressivo (in particolare i disturbi antisociale e borderline di personalità). Tuttavia il comportamento suicidario è multifattoriale: non tutti i pazienti con disturbo mentale, fortunatamente, tentano il suicidio. Ciò significa che entrano in gioco altri fattori. Ad esempio, fattori di rischio genetici e neurobiologici (in particolare le alterazioni del sistema serotoninergico) possono essere importanti nella predisposizione al suicidio. Precedenti tentativi di suicidio oppure una storia familiare positiva per condotte suicidarie o disturbi dell’umore/alcolismo sono fattori da tenere sempre in considerazione. Esiste inoltre un’associazione tra suicidalità e alcuni problemi di salute fisica come il dolore cronico, i traumatismi cerebrali, i tumori, l’infezione da HIV, l’insufficienza renale, il lupus eritematoso sistemico. Anche alcune variabili socio-demografiche sono in grado di conferire, anche se moderatamente, un maggiore rischio generico di condotte suicidarie: razza caucasica, condizione di “single” (anche divorziato/vedovo), disoccupazione, indigenza, isolamento sociale, retroterra familiare caotico o conflittuale, recente lutto, abusi durante l’infanzia, particolari orientamenti religiosi, climi freddi. Anche i media (internet compreso) giocano un ruolo importante, in quanto il fenomeno dei suicidi è a forte rischio emulazione soprattutto fra gli adolescenti.

– In base alla tua esperienza, qual è il comportamento da seguire o da attuare per evitare che una persona, con tendenze al suicidio, possa commettere un gesto così drastico? 
– E’ bene tener presente che ognuno di noi condivida una parte di responsabilità nella prevenzione del suicidio, proprio perché il suicidio è causato da numerosi fattori interagenti. Di fronte a una persona con pensiero suicidario, non serve a nulla riferire esempi di persone che si sono trovate in situazioni peggiori. La prima cosa da fare è trovare un posto tranquillo dove poter parlare. Ascoltare efficacemente, ossia rendersi disponibili ad ascoltare il dolore che affligge l’individuo suicida, è fondamentale allo scopo di creare un contatto che porti alla riduzione della sfiducia e della disperazione. Durante la comunicazione l’approccio deve essere calmo e accogliente, senza esprimere giudizi, anzi esprimendo rispetto per i valori della persona in crisi. Le domande devono essere chiare e dirette, senza timore di indurre in tal modo propositi autolesivi. Infatti, contrariamente a quanto si credeva in passato, il paziente con ideazione suicidaria trae sollievo nel verbalizzare gli intenti autosoppressivi. Ciò grazie al depotenziamento dell’angoscia e il superamento parziale del senso di isolamento.

– I familiari, amici di una potenziale vittima di suicidio, come possono evitare la caduta libera in questa trappola mortale? Quali sono i parametri, i comportamenti da seguire nelle mura domestiche e, se ci sono, quali sono i segnali più evidenti ed eloquenti da tenere sott’occhio?
– Oltre ai suddetti fattori, il soggetto a rischio si presenta con pensieri identificabili con alcune delle seguenti espressioni: essere triste, depresso, solo; sentirsi un perdente, non riuscire a fare nulla, sentirsi un peso; voler essere morti. Tra i segnali d’allarme, ci sono segni comportamentali (ritiro dalla famiglia, dagli amici; uso di alcool e droghe; comportamenti impulsivi o autodistruttivi) e segnali emotivi (disperazione, tristezza, senso di colpa, labilità emotiva, umiliazione, rabbia, ansia). Colui che minaccia di farsi male o di uccidersi, oppure lo desidera ed è in cerca di mezzi come armi, farmaci, dovrebbe indurre la considerazione di un alto rischio di suicidio.

– E’ abitudine nel senso comune dire che le persone tendenti al suicidio, in genere, non manifestano mai la loro propensione in modo plateale, ad esempio minacciando di uccidersi; quanta verità c’è in queste parole?
– La verità è che spesso le persone tendenti al suicidio, quando non comunicano le loro intenzioni, inviano dei segnali che spesso non vengono capiti. Il suicidio è frequentemente preceduto da un blocco comunicativo. Ma mi è stata insegnata (e l’ho vissuta sul campo) anche la verità dell’eccezione: storie di suicidi in cui la persona nei momenti che precedono l’atto sembra aver subito un cambiamento addirittura positivo, che mai farebbe supporre che si tratti di una persona che sta per togliersi la vita.

– Lo psichiatra che ruolo ha in questo caso?
– Lo psichiatra deve essere capace di gestire il paziente con ideazione e/o comportamento suicidario. Deve innanzitutto valutare il rischio (basso/alto) e intervenire sulla crisi, ossia scegliere l’intervento terapeutico appropriato che può essere, nei casi a basso rischio, il trattamento ambulatoriale oppure, nei casi ad alto rischio, il trattamento può prevedere il ricovero ospedaliero o psichiatrico. Nei casi in cui la persona dovesse rifiutare il ricovero e le cure necessarie, persistendo un rischio elevato, è previsto il trattamento sanitario obbligatorio.

– La scelta dei farmaci come avviene? Son davvero efficaci o può scatenarsi a volte un effetto placebo tale da rendere, poi, l’utilizzo di questi farmaci quasi inutile? 
– Il progetto terapeutico prevede un trattamento biologico/farmacologico, un trattamento psicoterapeutico personalizzato e un intervento sociale, che devono essere necessariamente articolati e congiunti. Il primo consiste nella terapia del disturbo psichiatrico sottostante. Gli studi mostrano che il trattamento antidepressivo diminuisce il rischio suicidario nei pazienti depressi. Più che preoccuparsi dell’effetto placebo, è importante considerare invece che in alcuni casi la terapia antidepressiva potrebbe aggravare il rischio di suicidio per via degli effetti collaterali, o per la delusione dell’inefficacia della terapia stessa, o in relazione a una ripresa fisica più rapida rispetto al miglioramento dei sintomi depressivi e alla remissione dell’ideazione suicidaria (che conferirebbe al soggetto energie sufficienti ad attuare il gesto autolesivo). Nei pazienti depressi sono indicati, ma a breve termine, anche farmaci ansiolitici ed ipnotici in caso di ansia e insonnia. A seconda del quadro clinico, possono risultare utili anche farmaci stabilizzatori dell’umore (ad esempio il litio, efficace nel trattamento a lungo termine per prevenire le condotte suicidarie sia nella depressione unipolare che bipolare) e/o antipsicotici (nei quadri psicotici).

– Molte riviste scientifiche affermano che i mesi più interessati a casi di suicidio sono marzo, maggio, giugno, novembre e dicembre, mesi in cui troviamo repentini sbalzi di temperatura e cambi meteorologici. Il fattore meteorologico, dunque, influisce molto sugli umori delle persone? 
– E’ vero. In letteratura si parla di suicide seasonality, la stagionalità dei suicidi. La ricerca ha dimostrato che è un fenomeno legato al genere: per gli uomini, gli studi mostrano un ciclo annuale con un picco singolo in primavera, mentre per le donne, la maggior parte degli studi (ma non tutti) mostrano un ciclo biannuale con un secondo picco, più piccolo, in autunno. Inoltre, è stato dimostrato che la stagionalità è confinata a metodi violenti di suicidio.Conoscere il suicidio e’ un dovere di tutti e la speranza che questo articolo sia stato utile per questo fine non puo’ che stimolare ancora maggior impegno per cercare di ridurre la miseria umana.; il suicidio si può prevenire e la miseria umana puo’ essere compresa. A noi spetta il compito di cimentarci con le emozioni negative degli individui suicidi e di come trovare quel ponte immaginario che può condurci alla vera comprensione del loro dramma interiore.

“Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio.

Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo.

In fondo la vita è in se stessa una grande insonnia e c’è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo.”

Pessoa

Il Dr Luigi Attademo è iscritto dal 2009 all’Ordine dei Medici di Cosenza ed è un neo-specialista in psichiatria. Ha conseguito il diploma di specializzazione in psichiatria presso l’Università degli Studi di Perugia. Durante gli anni di specializzazione ha svolto la propria esperienza professionale presso l’Unità di Degenza Psichiatrica dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, con tirocini formativi svolti anche presso alcuni Centri di Salute Mentale del territorio umbro. Attualmente lavora come consulente psichiatra presso il Ser.T di Foligno ed è il rappresentante, per la regione Umbria, del Coordinamento Nazionale Giovani Psichiatri (Società Italiana di Psichiatria).
Carla Bottiglieri

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