Giovine Europa nowFriuli-Venezia Giulia “nuova Lampedusa”?

E' un piacere tornare a ospitare Elisa Grandi (note biografiche a fine articolo), che ci parla di migrazioni - partendo dal Friuli. La rotta migratoria conosciuta come “Western Balkan route” sta po...

E’ un piacere tornare a ospitare Elisa Grandi (note biografiche a fine articolo), che ci parla di migrazioni – partendo dal Friuli.

La rotta migratoria conosciuta come “Western Balkan route” sta portando un crescente numero di richiedenti asilo nel nord est dell’Italia, ma la notizia non ha ancora catturato l’attenzione dei media, né del governo centrale. I progetti ordinari di accoglienza non sono sufficienti a rispondere ai nuovi arrivi via terra e non sono mancate situazioni critiche, con parchi pubblici udinesi utilizzati come dormitori di fortuna e le rive del fiume Isonzo trasformate in accampamenti. Prefetture e Comuni hanno elaborato ed avviato progetti di accoglienza straordinaria con l’aiuto del terzo settore, ma il governo italiano fa attendere la sua risposta a quella che, se non gestita e coordinata propriamente, potrebbe rivelarsi l’ennesima tragica emergenza annunciata.

Il Friuli-Venezia Giulia è una regione che difficilmente raggiunge gli onori della cronaca, una zona spesso dimenticata e confusa. Ho perso il conto di quante volte mi è stato chiesto se parlo tedesco, palesemente confondendo la più estrema delle regioni orientali con il Trentino Alto Adige.

Figura 1. Friuli-Venezia Giulia.

I flussi migratori provenienti dai paesi dell’est e dall’area balcanica hanno sempre interessato il piccolo Friuli-Venezia Giulia (un territorio di 7862,3 kmq e 1.228.106 abitanti). Man mano che i confini dell’Unione Europea sono andati allargandosi, il confine orientale dell’Italia ha perso centralità, sia nelle discussioni politiche, sia sui media, ma i flussi non si sono mai fermati.

Il numero e la composizione degli arrivi si è radicalmente modificato nell’ultimo anno: a novembre 2014 le Prefetture friulane segnalavano già 489 ingressi via terra, a cui devono essere sommate le persone intercettate dalla Prefettura di Gorizia il cui dato non è ancora disponibile. Si tratta soprattutto di persone provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan.

Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea, individua otto rotte migratorie – di mare e di terra – attraverso cui le persone entrano nella “fortezza” Unione Europea e ben tre di queste interessano il territorio italiano:

·Western African route

·Western Mediterranean route

·Central Mediterranean route

·Apulia and Calabria route

·Circular route from Albania to Greece

·Western Balkan route

·Eastern Mediterranean route

·Eastern Borders route

Figura 2. Rotte migratorie d’ingresso illegale nell’Unione Europea (fonte: Frontex – ecco il link: http://frontex.europa.eu/trends-and-routes/migratory-routes-map/)

Grazie a riflettori dei media puntati sulla situazione di Lampedusa conosciamo bene la “Central Mediterranean route”, ma tendiamo a dimenticarci dell’esistenza delle altre rotte, tra cui la “Western Balkan route” che coinvolge i territori orientali del nostro Paese.

Figura 3. Intercettazione di ingressi in EU sulle maggiori rotte migratorie dal 2011 (Primavera araba) al terzo quadrimestre 2014 (fonte: Frontex)

Oggi la maggior parte degli ingressi via terra si registra a Tarvisio attraverso il confine austriaco. Il tragitto di questi profughi è molto diverso da quello di chi sbarca in Sicilia. Spesso dall’Afghanistan e dal Pakistan le persone viaggiano in Iran e Turchia. La prima tappa europea è la Grecia, dove le persone rimangono anche per qualche anno per poi ripartire alla volta del confine della Macedonia, risalendo i Balcani fino all’Ungheria dove vengono accolti in grandi campi profughi all’aperto, molti poi passano in Austria e giungono infine in Italia. Forse è la speranza di ricongiungersi con la propria comunità o l’idea di ottenere più facilmente il diritto d’asilo in Italia che spinge le persone ad arrivare fino a Tarvisio. Sono ancora in corso indagini e verifiche sulle rotta migratoria, in particolar modo sulla possibile presenza di trafficanti umani.

Le migrazioni sono fenomeni complessi in continuo mutamento, strettamente collegate alle vicende internazionali, e così come nel 2011 l’emergenza umanitaria del nord Africa è stata prodotta dal conflitto scatenatosi in Libia, nel 2014 l’incremento del 823% degli arrivi in Italia è strettamente collegato con il conflitto siriano.

Nel 2014 è stato avviato il progetto “Mare Nostrum”, un’operazione militare e umanitaria della Marina, conclusasi nel mese di novembre, con l’obiettivo di rafforzare il controllo delle frontiere e soccorrere i migranti in difficoltà. La seconda parte del progetto, spesso dimenticata dai media, è dedicata all’accoglienza delle persone sbarcate. Con appositi decreti della prefettura vengono distribuiti sul territorio nazionale i richiedenti asilo i quali potranno così usufruire di programmi di accoglienza e accompagnamento.

Tra aprile e novembre 2014 le Prefetture friulane hanno ricevuto 1437 persone. Ben 1034 di queste se ne sono andate, così che ad oggi sono accolti nell’ambito di Mare Nostrum 371 richiedenti asilo. È a questo numero che vanno sommati gli ingressi diretti via terra in Regione, ad oggi gestiti solamente dal territorio. La distribuzione delle persone inserite nel progetto “Mare Nostrum” avrebbe dovuto garantire una distribuzione tra le diverse regioni italiane in base ad una proporzione con la popolazione residente.Tuttavia i dati mostrano una situazione un po’ diversa con alcune regioni, come lo stesso Friuli-Venezia Giulia che accoglie più delle persone prestabilite.

Regione                    (no Sicilia)

Presenze centri temporanei

dicembre 2014

Quote regionali base  circolari prefettizie

Differenza  quote regionali – presenze

Percentuale presenze affidate su residenti

Abruzzo

612

979

367

0,05%

Basilicata

414

535

121

0,07%

Calabria

2969

1744

-1225

0,15%

Campania

3700

5176

1476

0,06%

Emilia Romagna

2542

2947

405

0,06%

Friuli-Venezia

Giulia

1294

1102

-192

0,11%

Lazio

3692

4400

708

0,06%

Liguria

958

1568

610

0,06%

Lombardia

4285

7201

2916

0,04%

Marche

1269

1110

-159

0,08%

Molise

725

336

-389

0,23%

Piemonte

2250

3724

1474

0,05%

Prov. Aut. Bolzano

161

431

270

0,03%

Prov. Aut. Trento

274

431

157

0,05%

Puglia

4146

3620

-526

0,10%

Sardegna

1162

1536

374

0,07%

Toscana

1733

3402

1669

0,05%

Umbria

662

783

121

0,07%

Valle D’Aosta

62

153

91

0,05%

Veneto

1825

3742

1917

0,04%

Tabella 1. Elaborazione dati del “Direzione Centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo” e dati Istat su popolazione residente al 01/01/2014. É importante ricordare che non tutte le persone affidate permangono nel luogo di destinazione, molte infatti abbandonano le strutture di accoglienza.

Questi dati e le polemiche dei diversi territori ci spingono ad una riflessione sulla coesione dello Stato Italiano per rispondere al fenomeno migratorio che non può essere considerato emergenziale ma strutturale. Emblematico il caso del Veneto: un articolo apparso sulla rivista Panorama il 4 marzo 2015 titola “Accoglienza? No grazie. La rivolta è trasversale” e racconta come l’opposizione alla ricezione di richiedenti asilo sul proprio territorio non sia solo un tema caro alla Lega, ma a quasi tutti i partiti. C’è una certa carenza nazionale di solidarietà verso problematiche e sfide che non possono considerarsi circoscritte ad uno o due luoghi soltanto (Lampedusa piuttosto che le frontiere Friulane). L’articolista Carmelo Caruso propone un elenco in cui la regione Veneto è settima per numero di accolti (il Friuli-Venezia Giulia è undicesimo), ma come si evince dal grafico e dai dati sopraesposti l’incidenza dei richiedenti asilo sul totale della popolazione veneta è appena del 0,04%, tra le percentuale più basse di tutte le regioni (il Friuli-Venezia Giulia per esempio è al 0,11%). Il giornalista prosegue riportando una voce che insinua che “in realtà il cuore dei sindaci si stia rimpicciolendo non per paura dei migranti, ma per paura di perdere le elezioni”.

La pericolosa retorica che con cui spesso politici e media parlano della tematica della migrazione rischia di oscurare anche le ricadute positive che tale fenomeno può avere sui territori. I famigerati, odiati e tanto contestati 34,89 € giornalieri che lo Stato eroga per ogni richiedente asilo vengono riconosciuti all’organizzazione (sia essa una cooperativa, un’associazione, un ente ecclesiale, una fondazione o altro) che si occupa dell’accoglienza. Tali organizzazioni partecipano a regolari bandi, gestiscono le somme ricevute dallo Stato per garantire i servizi indicati nei rispettivi bandi: solitamente vitto, alloggio, mediazione culturale, consulenza legale e sociale, accompagnamenti sanitari, alfabetizzazione. Le associazioni pagano regolarmente con tale denaro albergatori, affitti, mediatori culturali, insegnanti, educatori di comunità, professionisti per la consulenza legale e via dicendo.

Va quindi considerato in questo discorso il numero di posti di lavoro che sono stati creati per rispondere al fenomeno migratorio. Si potrebbe quasi azzardare che se si togliessero i 34,89 € giornalieri ad oggi stanziati per i richiedenti asilo dovremmo reinvestire tale somma in sussidi alle persone che si occupano professionalmente di accoglienza e che rimarrebbero prive d’impiego. Questo, credo possa ben rispondere alle affermazioni di Riccardo Riccardi, capogruppo azzurro nel consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, riportate dalla giornalista Ludovica Bulian in un articolo del “Il Giornale” del 9 marzo 2015. Il politico friulano “punta il dito sui costi dell’accoglienza: «35 euro al giorno più Iva, di contro ai 29 dell’anno scorso». A conti fatti si tratta di «13 milioni di euro per il 2015 (…) Oneri (…) che contrastano con il momento di crisi che ha messo in ginocchio tanti concittadini.»”, dimenticando appunto che tale denaro fornisce uno stipendio a molti professionisti del territorio.

Un altro dato interessante sui costi, riguarda il confronto tra spese per il controllo delle frontiere e costi dell’accoglienza: tra il 2007 e il 2013 l’Unione Europea ha speso 4 miliardi di euro per politiche di controllo, ma solo 700 milioni in progetti di accoglienza. Pare che la difesa delle “frontiere del benessere” sia molto più dispendioso dell’accoglienza, o per chiamarlo con il suo nome: più dispendioso del rispetto della Convenzione di Ginevra che norma il diritto di asilo.

Il professore Michael Rosen durante una lecture alla London School of Economics dedicata alla “Lingua della migrazione” parla delle modalità con cui si può parlare di migrazione. Anche per la Gran Bretagna, che presto sarà chiamata al voto, la migrazione è un tema caldo e anche qui, come in Veneto, i partiti politici si stanno orientando verso un atteggiamento di chiusura piuttosto che di apertura. Questa volta, tra i migranti indesiderati ci sono i cittadini qualificati che provengono da Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i PIGS), e che vengono a rubare il lavoro ai cittadini del Regno. Il docente britannico confronta la retorica usata da Nigel Farage, estremo detrattore degli ingressi, con il linguaggio ottimista e possibilista di Obama, dimostrando che un problema solitamente trattato negativamente (come da Farage), possa essere invece rivisto alla luce di un linguaggio aperto e possibilista, che crea, nel caso di Obama, un’immagine del futuro positiva e ottimista.

I fenomeni migratori sono un dato di fatto e i flussi non sono di certo arrestabili. D’altra parte sarebbe sbagliato non controllare il fenomeno. Spetta a noi la scelta di vedere nelle migrazioni solamente un problema oppure un’opportunità. Il nostro paese rischia di essere vittima delle dinamiche globali, da cui viene investito passivamente limitandosi a rispondere alle eventuali emergenze. È necessario che lo Stato governi gli eventi, comprendendone la portata e cercando di trarre il meglio anche da fenomeni complessi come le migrazioni forzate, rispondendo anche moralmente a un mondo sempre più violento e sempre più connesso.

Elisa Grandi, antropologa culturale, nel gennaio 2011 prende parte al Proyecto Snait, iniziativa di sviluppo dal basso focalizzata sui diritti dei bambini presso la Parroquia San Pablo di Agustín Ferrari di Buenos Aires. Questa e altre esperienze sono materia della sua tesi di laurea, “Antropologi in campo”, che analizza la crisi odierna della disciplina antropologica e propone l’approccio dialogico come una delle risposte possibili, avviando una riflessione su come applicare le chiavi di lettura antropologica al di fuori dal contesto accademico.

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