Quella dei miglioristi è una vicenda nobile. La vicenda di chi – pur dentro il partito – aveva capito che il Pci avrebbe dovuto percorrere la strada del cambiamento, scegliere di stare a suo agio nella democrazia capitalistica e declinare le riforme in chiave socialdemocratica in tempi in cui i cascami del marxismo erano ancora dominanti. Sappiamo dalla storia quante esitazioni – con le conseguenti lacerazioni – abbia patito la sinistra italiana in questo cammino lungo e per nulla concluso. L’epifania di Renzi ha dato una virata formidabile a questa traiettoria. Nonostante il premier provenga da una storia completamente diversa da quella dei Napolitano, dei Macaluso, dei Ranieri e dei Morando, sembra incarnare oggi quella nemesi che restituisce alla corrente migliorista le ragioni della storia.
Ma Renzi il ‘migliorista’ disturba assai.
Nella sinistra italiana c’è una corrente ramificata e composita che gli si oppone. Diversi gli uni dagli altri. Accomunati da una impronta che non è più nemmeno ideologica. Ma antropologica tout court. Sono i peggioristi.
Il primo tratto dei peggioristi è il moralismo. Il peggiorista si siede in cattedra, con attitudine spontanea e inconsapevole. Guarda dall’alto il corso degli eventi. Immobile sul suo piedistallodispensa giudizi, di norma negativi (e perlopiù non richiesti). Costruisce i tabù e fomenta i conseguenti sensi di colpa. Costruisce antropologie negative per stigmatizzare l’azione dell’avversario. E così, il peggiorista veste i panni di Eugenio Scalfari quando parla di Renzi come di un “boy-scout post-ideologico della provvidenza”. O di Stefano Fassina quando dice che perfino “Papa Francesco è per ora più di sinistra del Pd”. O dei vari piccoli leader della sinistra radicale che condannano l’emersione di una democrazia decidente ed efficace con la retorica dell’uomo solo al comando.
Il secondo tratto dei peggioristi si può fotografare con un classico motto: “si stava meglio quando si stava peggio”.Così, il peggiorista resuscita le preferenze anche se per decenni ha raccontato che sono la base del potere di scambio clientelare e mafioso. Diffida delle maggiori difese del contratto a tutele crescenti e quasi preferisce i vecchi co.co.co. Soffre quando vince le elezioni con il 40% dei consensi perché avrebbe preferito “perdere bene”. Se si fa un accordo con Berlusconi per le riforme piange per la fine della democrazia, anche se nei governi precedenti Berlusconi lo aveva con sé addirittura nella compagine di governo. “Non possiamo pretendere di risolvere i problemi pensando allo stesso modo di quando li abbiamo creati“: questa frase di Einstein non interpella i peggioristi. Loro si muovono sulle strade conosciute e hanno una grande nostalgia per il passato. A prescindere.
In terzo luogo, questo strano animale politico impegna tutto se stesso nel peggiorare ogni riforma. In altri termini, invece di promuovere norme capaci di incarnare una opzione netta e chiara, nella quale sono delineate le linee di sviluppo e le responsabilità dei soggetti, il peggiorista preferisce annacquare, sopire, ammorbidire. Il merito della questione non importa. La concretezza del mondo reale è un fastidio. Meglio una soluzione compromissoria ad una soluzione evidente. Meglio confondere, piuttosto che chiarire. Il peggiorista lo fa per mettere un freno al decisionismo, difendere la democrazia in pericolo, tutela i diritti negati: in realtà, esercita così un potere di veto ed impedisce all’avversario di realizzare una riforma coerente.
Infine, il peggiorista è convinto che il tempo che va dal presente al futuro è il tempo del declino. Non c’è scampo: per lui, così aggrappato ad una dimensione platonica, si peggiora ogni giorno di più. Se pure qualche organismo internazionale segnala motivi di speranza e di ripresa, il peggiorista o non sente o se ne adonta. Anche per questo ritiene che Renzi sia destinato a fallire. Ma dicono che Renzi il migliorista, nel frattempo, abbia già vinto.
(articolo già pubblicato su Qdr Magazine)