Allora. Quello che è successo nell’ovattato mondo di Grey’s Anatomy lo sapete tutti, giusto?
Bene. Allora parliamone.
Partiamo da un fatto e da una contraddizione.
Il fatto: Grey’s Anatomy è una delle serie più brutte di sempre. Ma di sempre, sempre, sempre.
E’ sciatta, scritta male, telefonata, involontariamente comica e popolata di personaggi che si agitano a cazzo e parlano a sproposito, afflitti da evidente isteria e logorrea: gente, Meredith Grey e compagni, con cui non vorresti mai bere un caffè, manco ristretto, figuriamoci affidargli la tua salute.
Una masnada di adolescenti in piena crisi emotiva e, per altro, con seri problemi di satirismo e ninfomania.
Gentaglia. Pessimi.
Questo è il fatto.
Poi c’è la contraddizione e cioè che io di Grey’s Anatomy non perdo una puntata, mai, da anni.
Perché un po’ ai personaggi, per quanto insopportabili siano, ci si affeziona; perché tutto sommato mentre mangi da sola, mentre stiri (sì: io, a volte, stiro), mentre aspetti l’ora per fare altro, una puntata di Grey’s Anatomy ci sta; e poi perché Sky trasmette così tante repliche che si sa che, sempre, accendendo il televisore, si trova una qualche puntata vecchia. Una certezza confortevole.
Però.
Una serie brutta, con dei personaggi assurdi e una trama strampalata (e stendo un pietoso velo sullo spin-off ‘Private Practice’) si regge solo se c’è un solido patto di fondo. Il patto è, più o meno: io credo a tutte le tue stronzate, ma tu mi dai quello che voglio.
Mi spiego:
finché fai flirtare Ross e Rachel, io posso fare finta di credere che quattro spiantati (ok: tre spiantati+Chandler) si possano permettere due appartamenti nel Greenwich Village e di consumare tutti i loro pasti fuori;
finché mi giuri che alla fine, Mister Big trova un cuore, io faccio finta di credere che New York sia una specie di club per scambisti a cielo aperto, in cui ti basta starnutire per avere un nuovo appuntamento;
finché mi prometti che il bene vince sul male, posso fare finta che Olivia Benson sia l’unico poliziotto di New York.
Eccetera.
Noi, io e te, cara la mia Shonda Rhimes, avevamo un patto.
Io facevo finta di credere che la gente potesse cantare, ballare o parlare di sesso durante delicatissime e disperatissime operazione a cuore aperto o che dei medici quarantenni dividessero la stessa casa manco fossero degli squatter fuori corso al Dams e tu, d’altra parte mi giuravi che quella era la storia d’amore a lieto fine di Meredith e Derek.
Io cara Shonda ho fatto la mia parte: sono undici anni che prendo la mia incredulità la mando a farsi un giro su Marte, mentre tu fai mettere le mani dei tuoi medici dentro gente che ha ‘bombe innescate nel cuore’ (letteralmente, non è un modo di dire).
Tu, adesso, devi fare la tua, di parte e darmi il mio lieto fine.
E ti dico una cosa, cara Shonda: o ti giochi, adesso, il Jolly dell’incubo di Meredith e di Derek vivo, magari malconcio ma vivo, o mi hai persa per sempre.
Perché la sospensione dell’incredulità, cara Shonda, funziona solo se c’è fiducia.
E se muore Derek muore anche la mia fiducia. Non è che si trasferisce a Zurigo,cara Shonda, non è che perde una gamba, non è che rimane in condizioni disperate ma stabili: muore, muore proprio.
Vedi tu.