Post filosoficoCorpo bene comune

A circa cinque anni di distanza dal placet del Consiglio superiore di sanità e del Comitato nazionale di bioetica, qualche giorno fa a Milano è stato effettuato il primo trapianto d’organo in Itali...

A circa cinque anni di distanza dal placet del Consiglio superiore di sanità e del Comitato nazionale di bioetica, qualche giorno fa a Milano è stato effettuato il primo trapianto d’organo in Italia da donatore “samaritano”. È il primo caso, cioè, in cui un donatore mette un suo organo a disposizione di un beneficiario a lui sconosciuto. Nello specifico, il trapianto di rene ha permesso l’attivazione di un circolo in virtù del quale sono stati realizzati altri cinque interventi analoghi. Grazie al protocollo denominato “crossing over”, infatti, è possibile incrociare coppie di donatori e riceventi con caratteristiche immunologiche incompatibili all’interno delle singole coppie. Risultato: gli organi vengono trapiantati su persone idonee a riceverli, ma il processo avviene in modo “cieco”, senza cioè che il soggetto bisognoso di trapianto conosca la provenienza del “pezzo” di corpo ospitato nel proprio organismo.

Questo ulteriore sviluppo delle tecniche di trapianto rafforza in qualche modo la concezione “pubblica” del corpo implicita nelle tecniche stesse. Abituati come siamo all’utilizzo delle biotecnologie in funzione del progresso medico-scientifico, l’idea di un corpo da considerarsi “mio” ma anche “a disposizione degli altri” ci appare oggi quasi scontata. Dalla fecondazione eterologa, il cui divieto è stato dichiarato illegittimo in Italia circa un anno fa, alla legge recentemente approvata in Gran Bretagna che autorizza la nascita di bambini col DNA di tre genitori, è sempre più frequente infatti l’applicazione di modificazioni genetiche che implicano il superamento di un’idea di corpo inteso in maniera esclusiva come “corpo proprio”.

Nel suo ultimo libro (Le persone e le cose, Einaudi) il filosofo Roberto Esposito ricostruisce il complesso processo storico, giuridico e concettuale che ha determinato la progressiva affermazione di questo paradigma, all’interno di un percorso ancora problematico e certamente non concluso. A parere di Esposito, è il corpo che permette il superamento della separazione netta tra persone e cose basata sulla confluenza tra filosofia greca, diritto romano e concezione cristiana.

Perché proprio il corpo? Innanzitutto per il suo ruolo gregario e subordinato all’interno delle tradizioni appena richiamate. Nel diritto romano, ad esempio, le persone venivano divise tra liberi e schiavi. Questi ultimi, non essendo dotati di autonomia, non essendo giuridicamente indipendenti, venivano situati nella categoria delle res corporales: qui il richiamo all’elemento corporeo indica proprio la posizione dello schiavo (ma come lui anche di tutti gli altri soggetti giuridicamente non autonomi: figli, mogli, debitori insolventi ecc.) a metà tra la persona e la cosa. L’idea del corpo inteso come cosa, sottoposto alla sostanza spirituale del soggetto razionale, libero e indipendente, nella tradizione occidentale non si riferisce però solo al rapporto giuridico tra alcuni individui ed altri, ma anche a quello interno alla singola persona. Nel dogma dell’Incarnazione di Cristo c’è infatti la separazione della persona in due sostanze, una spirituale ed una corporale. Quest’ultima, considerata inferiore, è sottomessa alla prima, come si può rilevare nella quasi totalità degli autori cristiani. La filosofia moderna, con la distinzione cartesiana tra una sostanza pensante e una sostanza estesa, confermerà questo modello: qui il corpo diventa oggetto e strumento in possesso di una persona identificabile esclusivamente con la certezza apodittica del proprio pensiero.

Nonostante alcune importanti eccezioni (su tutte, l’Habeas Corpus), il corpo è stato quasi sempre trascurato dai sistemi giuridici occidentali, proprio per la difficoltà di assimilarlo sia alla persona (a causa dei dispositivi appena analizzati) sia, ovviamente, alla mera cosa.

Nell’ambito della bioetica, Esposito individua in alcune concezioni neoliberali una ripresa dell’idea per cui il corpo vada segregato nel regime della cosa. Per autori come Hugo Engelhardt e Peter Singer, non tutti gli essere umani possono essere considerati persone, ma solo quelli dotati di coscienza e di capacità di autodeterminazione e quindi definibili come “agenti morali”. Ma sono proprio lo sviluppo delle tecniche legate alla scoperta del DNA e il dibattito etico che a tali tecniche si accompagna a modificare il perimetro concettuale e giuridico entro cui collocare il corpo. La definizione da parte dell’Assemblea generale dell’Onu del genoma umano come “patrimonio comune dell’umanità”, nel 1998, segna un passaggio formale che riflette i principi impliciti nella pratica dei trapianti. Qui sono in gioco due slittamenti: il primo è quello del corpo da cosa a corpo vivente, e la conseguente impossibilità di escluderlo dalla sfera della persona, prima identificata, come abbiamo visto, con la sostanza spirituale. Se “persona” è anche il corpo, però, il carattere vivente e “comune” di quest’ultimo determina un ulteriore slittamento dall’idea di persona a quella di “impersonale”. Il corpo è vivente anche e soprattutto come “corpo pubblico”. Da questo punto di vista, la sacralità della vita non scompare, ma, come scrisse Simone Weil, “ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale”. In questo senso la manipolazione del corpo ad opera della tecnica (come avviene con le cose) non è più da intendersi come una sua violazione, quanto piuttosto come sfruttamento delle potenzialità del corpo stesso. Il corpo è naturale ma è anche “tecnico”, se inteso nella sua dimensione non esclusivamente individuale.

A livello giuridico, il superamento della concezione del corpo come proprietà del singolo individuo viene rintracciato da Esposito, tra le altre cose, nella legge sul prelievo e il trapianto di organi da cadaveri di uomini. Proprio in seguito al primo trapianto da donatore samaritano, si sono levate alcune voci per sottolineare la necessità di incentivare questo tipo di donazione. In un’intervista alla Stampa, il chirurgo Mauro Salizzani, direttore del Centro trapianti di fegato all’Ospedale Molinette di Torino, ha infatti sottolineato che «la donazione samaritana può aiutare, ma non risolve certo i problemi del settore trapiantologico. Può certamente favorire la pratica del crossing over, innescando una catena di trapianti successiva, però tutto ciò non deve distogliere l’attenzione dal problema centrale che resta, comunque, la donazione da cadavere».  

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