Il problema di Renzi e Orlando è la durata non la lunghezza. Allungare le pene senza accorciare la durata dei processi vuol dire alimentare il giustizialismo anziché la giustizia; favorire l’amplesso mediatico dimenticandosi del purgatorio giudiziario (servono in media 8 anni per un giudizio pieno). Chi ha sete di giustizia vuole un po’ d’acqua subito non una brocca dopo 8 anni. Prendiamo il tema della corruzione. C’è una retorica della corruzione, una percezione della corruzione e ovviamente la corruzione reale. Della prima (la retorica) sappiamo che in questo momento è mainstream. Sembra quasi, a forza di sentirne parlare, che risolvere la questione sia la soluzione a tutti i mali dell’Italia. Poi c’è la corruzione percepita che, come ci hanno ripetuto in più occasioni, è al 90%. E poi c’è il dato reale che in realtà è un dato che non c’è. Ci sono delle stime ma lasciano il tempo che trovano in un Paese che non è nemmeno in grado di fare previsioni esatte sui dati macroeconomici principali. La Corte dei Conti – l’organismo costituzionalmente previsto cui spetta il dovere di fare le pulci sulla spesa pubblica – ha “stimato” che questo male ci costa 60 miliardi d’euro l’anno. Ma non era il Minitero delle Finanze a dover fare le stime? E poi: spetta ad un organismo tecnico come la Corte dei Conti – che dovrebbe invece controllare i bilanci – fare stime che non potrebbero mai essere iscritte in un bilancio di Stato? Ho qualche dubbio. Prendiamone atto: non possiamo misurare la corruzione. Ciò che possiamo misurare è la dimensione della voragione che esiste nel mondo di mezzo tra stime e realtà. Quel luogo dove avviene tutto e il contrario di tutto. Dove lo Stato e la politica smarriscono il senso delle rispettive finalità in quella massa informe chiamata “spesa pubblica”. La spesa pubblica, esatto. Una spesa che alimenta gli interessi dei paladini della lotta alla corruzione che evitano di dire che in un Paese malato di spesa pubblica la lotta alla corruzione non la fai con norme più severe ma con tagli di spesa più decisi. Se siamo obesi di spesa non è che guariamo punendo gli spacciatori di merendine, ma ripulendo la mensola dalle porcherie di cui ci si alimenta da troppo tempo. Per due motivi. Il primo è che una spesa pubblica incontrollata produce una corruzione incontrollabile. Il secondo è che la politica economica del mangiare un po’ di tutto ha di fatto fallito. Da quando, a partire dalla Prima Repubblica, abbiamo imboccato la strada del di tutto un po’ non abbiamo fatto altro che appesantire i nostri conti pubblici ma soprattutto le nostre tasse. Legislatura dopo legislatura, illudendoci che il problema fossero le regole, abbiamo ingigantito lo stock di norme senza ridurre i flussi e i livelli di spesa. Abbiamo messo all’ingrasso uno Stato già obeso di tasse e regole ignorando che uno Stato più pesante è anche uno Stato più lento. E allora, per tornare alla lotta alla corruzione, dovrebbero esserci pochi dubbi su come farla davvero. Basterebbe dare una forma definita alle politiche di spesa. Fare quella che in tutte le nazioni civilii si chiama “politica economica”. La questione politica é questa. E se rottamazione vuol dire cambiamento non ci si può accontentare di cambiare un auto a benzina con una sgargiante auto a benzina. I problemi si risolvono prima con le azioni che con le leggi. Fare la lotta alla corruzione senza tagliare la spesa pubblica è inutile allo stesso modo in cui è inutile riformare la giustizia se non ci sono risorse umane ed economiche per smaltire rapidamente gli arretrati. Il potere esecutivo se vuole davvero rottamare il carrozzone Italia faccia funzionare la cinghia di trasmissione tra volontà politica e realtà fattuale. La storia, a quel punto, cambierà verso da se.
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