Su Pagella Politica analizziamo spesso il tema dell’immigrazione, tema di molte dichiarazioni dei nostri politici e quindi oggetto di numerosi fact-checking. La scorsa settimana abbiamo dedicato il nostro blog alle politiche di respingimento degli immigrati dell’Australia, che sempre più vengono citate anche in Italia. Ma cos’è “No Way”? Ha funzionato? E a che costo?
La politica del pugno dur(issim)o contro l’immigrazione clandestina
Il barcone che si è ribaltato al largo della costa libica domenica mattina trasportava centinaia di persone e sarebbe protagonista –stando a diverse fonti – della peggiore strage mai registrata sulle rotte della migrazione mediterranea. Secondo alcuni protagonisti della politica internazionale e anche secondo certa stampa (italiana come estera), la misura che dovrebbe adottare l’Italia (e l’Europa) sarebbe un respingimento totale dei barconi che salpano dalla Libia, ricalcando le orme del governo australiano.
Cerchiamo di approfondire la questione e vedere come agisce l’Australia di fronte all’afflusso di migranti, rispondendo a due semplici domande:
Le politiche del governo australiano hanno bloccato gli sbarchi?
La storia recente delle politiche australiane nei confronti dell’afflusso di migranti via mare può essere riassunta in due parole: “No Way” (assolutamente no). La campagna di comunicazione del governo australiano di Tony Abbott è inequivocabilmente chiara – il generale Campbell, in capo dell’operazione “Sovereign Borders”, dichiara fermamente che nessuno, incluso “famiglie, minori, minori non accompagnati” potrà stabilirsi fermamente in Australia se giunto via mare. Le nuove regole sono chiarissime: a nessun migrante proveniente via mare illegalmente sarà permesso l’accesso al territorio australiano. Coloro che tenteranno l’approccio saranno respinti ai Paesi di provenienza in virtù di accordi bilaterali, diretti verso centri appositi a Nauru e in Papua Nuova Guinea (dove saranno accertate le loro condizioni di rifugiato), o detenuti nel carcere di Christmas Island in attesa di essere deportati.
I toni dell’esecutivo Abbott sono stati trionfalistici: “Abbiamo fermato gli sbarchi”, anche se le statistiche fornite dal governo australiano si fermano come ultimo anno completo al 2013, l’anno di elezione dell’attuale governo e dell’ulteriore rafforzamento sulle politiche di immigrazione.
Per quel che riguarda i dati relativi all’anno scorso ci si poteva affidare, fino a qualche mese fa, soltanto alle dichiarazioni dell’attuale governo e a fonti terze di natura giornalistica. Alcuni ingressi nelle acque territoriali australiane nel corso del 2014 ci sarebbero stati, anche se respinti. Da parte del governo, il velo di segretezza sull’operazione “Sovereign Borders”, criticata dalla stampa australiana, è stato in parte sollevato nel settembre dello scorso anno: il ministro per l’Immigrazione Scott Morrison aveva infatti annunciato come nel corso del 2014 quasi tutte le imbarcazioni dirette verso l’Australia (con l’eccezione di una) fossero state fermate prima dell’accesso alle acque territoriali (qui la lista completa dal settembre del 2013 all’ottobre del 2014). Secondo l’Unhcri barconi intercettati dal governo australiano nei primi 11 mesi del 2014 sono stati 10 (con 440 persone a bordo). Di questi 10, sette sono stati rispediti in Indonesia, 2 in Sri Lanka e uno dirottato verso Nauru. Insomma, sembra proprio che le promesse del governo di Canberra di impedire lo sbarco dei migranti sul suolo australiano, siano state per ora mantenute.
Il pugno duro dell’Australia ha fermato il fenomeno della migrazione via mare?
Un conto però è affermare che l’operazione “Sovereign Borders” abbia ad oggi ridotto l’accesso dei migranti via mare sul suolo australiano (sostanzialmente vero) e un altro è sostenere che questa politica ha definitivamente dissuaso i tentativi di sbarco degli immigrati.
Secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) almeno 348 mila persone nel mondo hanno tentato di migrare clandestinamente via mare nel 2014. Di queste, 207 mila lo hanno fatto nel Mediterraneo, 83 mila nel Golfo di Aden (dal Corno d’Africa verso i Paesi arabi) e 54 mila nel Sud Est asiatico (principalmente dal Myanmar e dal Bangladesh).
Le critiche al governo australiano indicano come il costo derivante dal rifiuto assoluto di accogliere domande d’asilo da parte dei migranti sbarcati via mare sia sostenuto da Paesi come l’Indonesia e la Malesia.
Non solo. Come detto prima, l’Australia ha firmato accordi con altre nazioni della regione del Pacifico (Nauru e Papua Nuova Guinea) affinché siano queste ad ospitare migranti intercettati in acque australiane, in alternativa al respingimento alla frontiera. Tale procedimento fa parte di un processo di identificazione dei richiedenti asilo (definito “Offshore processing and regional resettlement programme”) volto a mantenerli lontano dal territorio di Canberra, e coinvolge attualmente 2.400 individui. Non sono però mancate le critiche nei confronti delle condizioni di trattamento dei rifugiati all’interno di questi “campi offshore”: pareri contrari sono arrivati dalla Unhcr e da organizzazioni australiane come l’Asylum Seeker Resource Centre, oltre che da interrogazioni del parlamento australiano, in particolare sulle condizioni del campo di Manus Island (in Papua Nuova Guinea).