Scalpore ha fatto, immagino tra le quattro mura del giornalismo nostrano e poco oltre, l’audizione in commissione Giustizia alla Camera di Edmondo Bruti Liberati e Giuseppe Pignatone, capi degli uffici inquirenti di Milano e Roma, che hanno proposto ai commissari di rendere pubblicabili soltanto le ordinanze di custodia cautelare che scaturiscono dalle indagini e un divieto assoluto di far finire invece nella disponibilità dei cronisti (a cui, beninteso, qualcuno passa queste carte, siano avvocati, pm oppure cancellieri) tutto il materiale che solitamente un giudice per le indagini preliminari ha a disposizione come la richiesta del pubblico ministero e le informative della polizia giudiziaria. Queste ultime due solitamente riportano materiale che poi non rientra nell’ordinanza di arresto perché non strettamente connesse alle indagini in corso, perché non ritenute necessarie dal Gip, oppure perché potrebbero originare altri filoni di indagine che ancora non possono essere svelati.
Le scuole di pensiero sono parecchie: c’è chi si indigna perché non far arrivare un brogliaccio di una intercettazione che non si trova nella misura cautelare non «permette di scoprire gli scandali al cittadino», chi propende invece per una maggior tutela delle indagini, degli indagati e di chi viene tirato in ballo. Non siamo qui però per discutere su questo punto, che da almeno tre giorni alimenta il dibattito su bavagli e bavaglioli più o meno stretti.
Quel che si nota, per chi tra le carte giudiziarie ci nuota, è che la discussione parte dopo i casi Lupi e D’Alema. Tirati più o meno in mezzo nel corso delle indagini uno si è dovuto dimettere a causa dell‘inchiesta che ha coinvolto l’ex ras del ministero delle opere pubbliche Ercole Incalza, l’altro si è dovuto difendere da intercettazioni e interrogatori degli ex vertici della Cooperativa Cpl Concordia nell’inchiesta che ha portato all’arresto di questi chiesto dalla procura di Napoli.
Qui arriva il punto: chi prende parte a questo dibattito non ha forse colto un punto non da poco e cioè che, per restare al caso D’Alema che è il più recente, i passaggi più delicati che hanno visto il nome dell’ex premier finire in pagina sulle cronache arrivano proprio dall’ordinanza di custodia cautelare, e precisamente, l’oggetto non sono solo intercettazioni, ma anche l’interrogatorio di uno degli indagati.
Le famose 2000 bottiglie del vino dell’ex premier e le 500 copie del libro, i bonifici della Fondazione Italiani Europei vengono citate proprio nell’ordinanza di custodia cautelare, che un qualunque giornalista che abbia frequentato anche solo per due giorni un palazzo di giustizia ha rimediato in una mattinata con un paio di telefonate. Dunque niente brogliacci, niente i niente coperto da nessun tipo di segreto.
Vien dunque da chiedersi se prima di tirare in ballo giornali, giornalisti e sanzioni non sia il caso di fare mea culpa e decidere all’interno della magistratura come, quando e cosa far entrare all’interno di una ordinanza di custodia cautelare o meno.