Le elezioni sono una ricorrenza sopravvalutata, ma le campagne elettorali sono decisamente una sciagura dell’umanità.
Negli Usa il partito repubblicano – GOP, Grand Old Party – si avvia a grandi falcate verso le primarie per stabilire quale candidato sfiderà nel novembre del 2016 il successore di Barack Obama per la poltrona di Presidente alla Casa Bianca – con ogni probabilità, salvo cambiamenti inaspettati, la ex first lady Hillary Clinton. Sono primarie movimentate, focose, non foss’altro che per il numero elevato di aspiranti leader conservatori fra coloro che hanno già annunciato la candidatura, quelli di cui si sussurra il nome a bassa voce nei corridoi del Campidoglio, oltre a chi invece ancora non la conferma, pur essendo erede designato – il caso di Jeb Bush, ex Governatore della Florida, fratello dell’ultimo Presidente repubblicano George W. e figlio del penultimo, George H. W. Circa 26 nomi fra smentite e conferme che animano un dibattito interno al GOP, tanto elevato da raggiunge talvolta vette da internamento immediato in ospedale psichiatrico-giudiziario: pensare che Randal Howard “Rand” Paul, oculista di formazione e Senatore del Kentucky in quota libertarian, solo un mese fa sosteneva l’impellente necessità di “dissolvere” il Department of Education – sciogliere il Ministero dell’Istruzione, colpendone uno per “educarne” cento.
Vi è poi Marco Rubio, affascinante senatore della Florida di origini cubane, parte del nutrito manipolo di repubblicani che al Senato hanno dato battaglia sulla proposta obamiana di snellire le procedure amministrative e semplificare i criteri per il rilascio della cittadinanza a circa 1/3 degli 11 milioni di immigrati irregolari presenti su suolo statunitense. La “sanatoria” di Obama – molto simile a quelle attuate nel 1987 dal Presidente Ronald Reagan e nel 1992 da Geroge H. W. Bush, entrambi conservatori – è stata presentata come ordine esecutivo dalla Casa Bianca in seguito all’ostruzionismo parlamentare che ne impediva l’iter ordinario, e bloccata quattro settimane fa dal giudice Andrew S. Hanen di una corte distrettuale texana. Si attende ora il parere della Corte Suprema, ma non sono chiare le tempistiche del verdetto. E fa decisamente sorridere che il “boicottatore” Marco Rubio, figlio di immigrati cubani giunti a Miami nel 1956 e naturalizzati solo diciannove anni più tardi, si presenti come la bestia nera, il castigamatti dell’immigrazione illegale, visto che non più tardi dell’ottobre 2013 si faceva promotore di un disegno legislativo il cui scopo era “ammodernare il programma nazionale per il rilascio dei visti e tracciare un sentiero che conduca alla cittadinanza gli 11 milioni di immigrati senza documenti”. Lo faceva dall’interno del gruppo Gang of eight, termine delle cronache giornalistiche con cui s’indicava un nucleo di 8 senatori, 4 democratici e 4 repubblicani, che avevano il compito di conciliare le posizioni dei relativi schieramenti in tema di immigrazione, sicurezza dei confini e opportunità economiche.
Ci regala sorrisi anche Ted Cruz, senatore per lo Stato del Texas, nato a Calgary in Canada ma figlio di un immigrato cubano e di un’americana di origini italiane – come diceva George Clooney in Fratello dove sei? dei fratelli Coen: “Una bizzarria geografica”. Ted Cruz, che probabilmente accederà a un ottimo risultato personale nelle primarie del GOP pur senza avere chance di giocarsi la massima poltrona di Washington, rappresenta assieme a Rubio la quota “esotica” dei repubblicani in corsa. Del resto, in una nazione che secondo le attuali proiezioni demografiche si potrebbe trovare nel giro di pochi decenni con più “Carlos” che “John”, anche nel partito degli ariani più puri – gli stessi che hanno rinfacciato per anni a Obama colore della pelle, presunta fede musulmana e il primo Natale della sua vita in Kenya invece che alle Hawaii, screditandone quindi la legittimità alla Presidenza – si sa perfettamente che converrà nel prossimo futuro saper parlare un po’ di spagnolo, nella speranza di portare a casa qualche voto fra un elettorato di seconde-terze generazioni con vuoti di memoria. Ma molto più importante del futuro di Ted Cruz è il suo passato: senatore non proprio presenzialista, viene colto da veri e propri attacchi da amanuense quando raramente decide di sedersi alla sua poltrona riservata a Capitol Hill. E partorisce proposte di legge che di solito finiscono con lo schiantarsi contro la realtà. Come quella del 12 novembre 2013: propose al Dipartimento di Stato – già guidato da John Kerry all’epoca – un testo di legge per “richiedere” o “esigere” (to require) che il Ministero degli Esteri Usa offrisse 5.000.000$ a chiunque disponesse di informazioni sensibili sull’attacco al consolato americano a Bengasi, subito l’11 settembre 2012, nel quale persero la vita due funzionari, fra cui J. Cristopher Stever, l’ambasciatore americano in Libia. Tecnica già sperimenta con Osama bin Laden, quando la taglia offerta dopo l’11 settembre 2001 raggiunse i 25.000.000$, salvo poi negare di aver mai versato quella cifra, anche perché è difficile convincere l’opinione pubblica che a detenere informazioni riservate sulla location del più ricercato terrorista del mondo sia una dolce massaia di Islamabad, che con quei soldi ci pagherà il College in California ai figli. È più facile supporre che si tratti di membri dei servizi segreti stranieri o di jihadisti accecati lungo la via della banconota verde.
I capolavori di Ted Cruz non finiscono qui; il 7 marzo 2013 il texano adottivo propone al Congresso un testo il cui titolo da solo varrebbe il Nobel per la Letteratura e la fama nei secoli: “A bill to prohibit the use of drones to kill citizens of the United States within the United States”. Se invece non siete cittadini statunitensi vi aspetta una lunga corsa “vivere o morire” inseguiti da droni militari sotto il cielo di Dallas. Peraltro specificare e sottolineare che una legge del Parlamento Usa ha di fatto valore solo entro i confini degli Usa, è concetto che farebbe impazzire un cartografo prima ancora che un giurista.
Vi sono anche elementi dal profilo politico semi-nullo, nel senso che in alcun modo potranno gareggiare alla cavalcata verso la Presidenza, ma che strappano comunque un sorriso: è il caso di Chris Christie, eccentrico Governatore del New Jersey, la cui fama anche in Europa deriva sopratutto dall’essere stato il bersaglio preferito di David Letterman durante le ultime stagioni del Late Show sulle frequenze della CBS: Letterman lo utilizzava come intercalare per far ridere il pubblico o come sinonimo della parola “lardo”, basta guardare una foto per comprenderne le ragioni. Si aggiunga che il conduttore, da buon newyorkese acquisito, non vedeva l’ora di poter dileggiare e sbertucciare gli abitanti del New Jersey, la cui unica colpa è quella di essere nati sulla sponda sbagliata dell’Hudson.
La parabola di Christie assume i toni della farsa nella primavera del 2014, quando il Governatore sta parlando a Las Vegas durante un evento per la raccolta fondi del proprio comitato elettorale, davanti a Sheldon Adelson, medico, affarista, magnate dei casinò, tra i principali finanziatori dei repubblicani – Forbes parla di 100 milioni di dollari solo per la campagna 2012 – ebreo e fan sfegatato del primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. Nel tentativo di ingraziarsi il suo boss, Chris Christie accenna a un viaggio da lui compiuto nel 2012 in Israele e si esprime così: “Sorvolando con l’elicottero i territori occupati ho capito nel profondo i rischi militari con cui Israele si scontra ogni giorno”. Si riferiva al fatto di osservare una nazione dall’alto accerchiata da Paesi nemici o milizie ed eserciti belligeranti – capita quando disegni uno Stato dal nulla imponendolo agli autoctoni. Una forma di servilismo strisciante nei confronti del proprio datore di lavoro ufficioso, che tuttavia non apprezza affatto la frase di Christie. Per Adelson non esiste nessun “territorio occupato”, gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania sono legittimi territori integranti dello Stato d’Israele e che un sottoposto burocrate si azzardi anche solo a metterlo in dubbio è uno smacco. Sheldon Adelson chiude i rubinetti dei propri finanziamenti al Governatore del New Jersey costringendolo a patetiche scuse che ne ledono la dignità molto più del lardo o di David Letterman.
Di dignità perduta se ne intende anche Jeb Bush. Nelle ultime settimane i media politici lo hanno intervistato più volte, nonostante non abbia ancora ufficializzato la propria candidatura, giungendo nelle interviste sempre a una fatidica domanda: “Cosa ne pensa della guerra in Iraq lanciata da suo fratello George W. nel 2003?”. E Jeb Bush, stretto fra il non poter rivendicare un “errore” di proporzioni cosmiche (errore consapevole) e l’amore fraterno che lo lega a una della casate familiari più potenti d’America, ha risposto in maniera diversa a seconda della platea: prima si è detto in disaccordo, poi ha dichiarato che “alla luce di quanto sappiamo oggi” non si sarebbe dovuti intervenire, infine ha rivendicato con forza la destituzione di Saddam – non solo ha perso una dignità di per sé ondivaga, ma forse ha smarrito per strada anche una manciata di cloni di se stesso in provetta (come quella agitata da Colin Powell all’Onu), cloni che s’aggirano per gli studi televisivi e le redazioni giornalistiche, ognuno dotato di una propria sensibilità.
Sarà anche vero che le elezioni sono una ricorrenza sopravvalutata. Ma forse, più che le campagne elettorali, la vera sciagura sono i loro protagonisti.