Mattia Sangermano è un ragazzo milanese di circa 21 anni, viene intervistato il 1 Maggio, giorno delle contestazioni a Milano contro Expo, dice un bel po’ di cavolate e la gogna mediatica si scaglia contro di lui come se non ci fosse un domani (dati i tempi cosa altamente probabile).
Dall’intervista non si può dire se il ragazzo abbia realmente partecipato alla guerriglia urbana scatenata dai black block, difatti dice “se avessi avuto qualcosa in mano l’avrei lanciato anche io”, quindi si può accusare il giovane di molte cose, ma non di non saper usare il congiuntivo e il condizionale. Non si può neanche dire se faccia parte attivamente dei black block, non si può muovere questa accusa sempre e comunque, si sa che il nero snellisce e un cappuccio è sempre utile quando tira troppo vento o peggio piove.
Eppure pare che Tia (nonostante tutto mi sta simpatico e lo chiamo affettuosamente così) rappresenti per antonomasia tutti i black block, che nell’immaginario generale sono coloro che manifestano solo per il gusto di distruggere, un movimento né propositivo né costruttivo. Credo che Sangermano sia più che altro la concretizzazione dello stereotipo del giovane alternativo da centro sociale, quello che per essere anti-sistema rifiuta tutto, va contro qualsiasi cosa.
Il sogno di tutta la destra e dei moderati si è realizzato, finalmente possono andare contro tutto quel mondo dei centri sociali e movimenti extra-parlamentari che gli manifestano sempre contro. Renzi si esalta e piazza il colpo del “fuoriclasse” definendo i black block dei figli di papà, proseguendo così la sua narrazione politica: quella di un governo costruttivo che propone e agisce, opposto a chi vuole solo distruggere, a chi va contro a prescindere. Come al solito il premier priva di ogni argomentazione l’avversario: se la polemica è sterile, fatta solo per distruggere, allora essa non ha contenuti o argomentazioni, il nulla opposto al fare.
Alla retorica renziana poi si accoda quasi tutta l’Italia: insulti ed epiteti vari rivolti al ragazzo, meme, parodie e continue condivisioni del video. Mattia Sangermano è ovunque e forse è un po’ troppo. Lo stesso giornalista che ha realizzato l’intervista, Enrico Fedocci, ha dichiarato: “Al di là di ciò che ha detto Mattia al mio microfono, che non condivido, al di là di ciò che ha fatto, che non possiamo certo noi stabilire con certezza, su internet abbiamo assistito al massacro di un giovane: gente che insulta questo ragazzo colpevole, al massimo, di essere poco o tanto immaturo […] Ma nessuno – nessuno! – avrebbe dovuto permettersi di offendere quel ragazzo, di denigrarlo, minacciarlo. Prendere le distanze dalle sue frasi, sì. Offenderlo e deriderlo, proprio no”.
“Gogna mediatica” è un modo di dire che odio scrivere e pronunciare, ma è questa purtroppo la pratica mediatica dei nostri tempi. Oggi tutti si indignano per qualcosa, fanno tutti la morale a qualcuno, un giorno danno della puttana a una ragazzina che fa sesso nel bagno di una discoteca, il giorno dopo sognano di essere stati al posto del tipo che si è fatto la ragazzina; il tutto in un trionfo di ipocrisia raggelante. Questo fenomeno descritto benissimo da Zerocalcare in “La Città del decoro”: breve storia, ovviamente a fumetti, che ha pubblicato su Repubblica della domenica passata (volendo potete scaricare il pdf qui). Michele afferma che adesso ce la si prende con il povero invece che con la povertà, con chi è vittima di una situazione, invece che con chi ha generato quella situazione. Perché nessuno si chiede da dove provenga tutta questa rabbia che porta a distruggere? Forse la precarietà del lavoro ha portato ad una vita precaria e magari non è che ci si alza la mattina con un sorriso in faccia. Perché nessuno si chiede come mai siamo arrivati a una tale povertà culturale? Nessuno si chiede niente, ma tutti accusano.
Ma non dobbiamo credere che la pratica della gogna mediatica sia scaturita da internet, dal “popolo del web”, sarebbe un errore d’ignoranza e approssimazione. Il sociologo Zygmunt Bauman parlava di certe pratiche già nel 1999, 16 anni fa quando internet non era così pervasivo, si accedeva alla rete tramite rumorosi modem 56k e l’Adsl era roba per pochi. Bauman analizza il caso di proteste pubbliche contro un pedofilo, il quale appena scarcerato sarebbe stato riportato a casa, così tutti credevano che si trovasse in un commissariato poi preso d’assalto. In realtà tutte le persone intente a protestare ferocemente non avevano nessuna certezza di dove si trovasse questo pedofilo e che aspetto avesse. Persone che mai avevano preso parte a una manifestazione pubblica adesso erano lì, in prima fila a gridare la loro rabbia. Così Bauman si chiede il perché e si risponde così: “Cooke (il pedofilo in questione) rappresenta una causa perfetta per mettere insieme persone in cerca di uno sfogo per l’ansia accumulata nel tempo. Cooke ha un nome che lo identifica: questo lo rende un bersaglio concreto […] diversamente dalla maggior parte delle minacce, tanto più inquietanti in quanto generalmente avvertite come diffuse, striscianti, sfuggenti, onnipresenti, sfocate”.
Il filosofo francese René Girard ha addirittura ipotizzato uno scenario per la nascita dell’unità in un’epoca presociale, sempre citando dal libro di Bauman: “Immaginò che il passo decisivo fosse stata la scelta di una vittima alla cui uccisione diversamente dalle altre uccisioni, prendevano parte tutti i membri della popolazione, che in questo modo si univano nell’assassinio trasformandosi in aiutanti, complici e testimoni. L’atto spontaneo dell’azione coordinata aveva la capacità di sedimentare l’ostilità dispersa e l’aggressività diffusa, separando nettamente la correttezza dalla scorrettezza […] Il vero messaggio del racconto di Girard è che ovunque il dissenso sia diffuso e vago, e ovunque regnino l’ostilità e il sospetto reciproci, l’unico modo per arrivare o tornare alla solidarietà comunitaria, a un habitat sicuro (perché solidale), è scegliere un nemico comune e unire le forze in un atto di atrocità collettiva diretto contro un bersaglio comune”.
Il sociologo polacco poi parla di “comunità piolo” che si costituiscono mediante la ricerca di un piolo al quale appendere contemporaneamente le paure di molti individui, gruppi che “traggono la loro forza dagli sfoghi messi a disposizione di una paura e di una rabbia represse che, tutt’al più, sono collegate al problema in questione solo indirettamente”.
In una realtà sempre più complessa, in cui ogni ideologia sta franando, la maggioranza delle persone hanno virato decisamente verso la semplificazione: come se la questione mediorientale fosse sintetizzabile in un “l’islam è una religione di emme”, come se la soluzione alla crisi fosse semplicemente uscire dall’euro, come se per far ripartire l’Italia bastasse solo l’ottimismo e la voglia di fare, senza mai discutere sul come fare le cose e con chi. Ma il modo oramai non conta più, non c’è più tempo. Più passa il tempo e più la crisi si protrae come il senso d’impotenza di chi soffre, non c’è reale valvola di sfogo per i frustrati dalla disoccupazione in una società in cui c’è sempre meno spazio per la classe media, o sei ricco o sei povero.
Così quando arriva il Mattia Sangermano di turno la gogna mediatica è servita su di un piatto d’argento, è il bersaglio facile per distogliere l’attenzione da tutto il resto. Come se un ragazzo immaturo fosse davvero il problema principale da affrontare, come se d’un tratto l’Expo con i suoi ritardi non avesse scucito altri soldi alle casse dello Stato, come se le infiltrazioni mafiose e la corruzione non esistessero più. Da Tor Sapienza in poi in Italia si susseguono guerre tra poveri, gli uni contro gli altri in una solidarietà attivata solo dall’odio verso chi sta peggio di noi. Se qualcuno si fosse scordato cosa sia realmente la solidarietà torno a citare Bauman: “Sono fredde le persone che hanno dimenticato da molto tempo quanto calore possa trasmettere la solidarietà umana; quanta consolazione, quanta serenità, quanto incoraggiamento e quanto piacere possano derivare dal condividere il proprio destino e le proprie speranze con altri: “altri come me”, o più precisamente altri che sono “come me” proprio perché condividono le mie stesse difficoltà, la mia sofferenza e il mio sogno di felicità, e ancora di più perché io sono sensibile alle loro difficoltà, alla loro sofferenza e ai loro sogni di felicità.”