«L’avete voluta voi, la privatizzazione». A un certo punto, il giovane controllore dall’accento bolognese abbandona la condiscendenza di fronte alle proteste del suo interlocutore. In quel preciso istante, saranno state più o meno le 21 stavamo chiacchierando da una mezz’ora abbondante. Lui aveva cominciato il suo turno a Bologna, verso le otto. Io ero salito a Civitanova Marche, più o meno sette ore prima. Avremmo passato ancora un po’ di tempo assieme.
Ironia della sorte, quell’odissea era figlia della scelta di partecipare a una tavola rotonda sulla cultura nell’ambito dell’annuale festival di Symbola, fondazione delle qualità italiane, in cui si parla di manifattura digitale, di futuro artigiano, di modernizzazione. Festival che si tiene ogni anno fra Macerata e Treia, nelle Marche, là dove – da claim dell’azienda di promozione turistica – l’Italia è più Italia.
Ed eccola, allora, l’Italia più Italia. Un treno Intercity che parte da Taranto alle 10 di mattina e che dovrebbe arrivare nel giro di una decina di ore a Milano Centrale. Un treno che già a Giulianova, in Abruzzo, ha accumulato mezz’ora di ritardo per un guasto alla linea, ritardo che aumenterà nel corso del viaggio fino a toccare i settanta minuti.
Probabilmente le Frecce hanno alzato l’asticella. Probabilmente, nonostante la crisi, siamo dei gran viziati. Probabilmente, non siamo più capaci di goderci un buon viaggio, un buon libro, una sana conversazione. O non lo sono io, perlomeno. La lenta di scesa verso l’era pre-digitale inizia quando scopro che su quel treno non esistono prese della corrente. Il primo a cadere è il computer, poi il tablet, poi il telefono. All’altezza di Pesaro sono isolato dal mondo esterno. La Grecia potrebbe fallire, il Milan comprare Cristiano Ronaldo e io lo saprò solo una volta a casa.
In realtà le prese della corrente ci sono, sono nei bagni e la targhetta indica che la loro funzione è quella di permettere ai viaggiatori di farsi la barba prima di scendere dal treno. Non solo l’era digitale, ma nemmeno gli hipster sono ancora arrivati sugli Intercity.
Vago alla ricerca di una bottiglietta d’acqua. Quando chiedo al controllore – quello con accento tarantino che finirà il suo turno a Bologna – dov’è il bar, mi sorride come si sorride a un figlio quando ti chiede quando arriva Babbo Natale: «Su questo treno non è previsto il servizio bar». Gli chiedo se prima o poi salirà l’omino con il carrello, che ricordavo come presenza più o meno fissa, nei miei precedenti viaggi in Intercity: «Non ci sono più da almeno tre, quattro anni – mi risponde -. Era un servizio in perdita. Da Taranto a Milano guadagnavano 50 euro se andava bene».
Mi guardo intorno. Hanno tutti la loro bottiglietta d’acqua. Tutti il loro panino. Tutti il loro carica batterie d’emergenza, quello che funziona con le pile stilo (e hanno anche tutti l’iPhone, a voler fare il sociologo del paese reale in uno scompartimento). Mi sento un coglione, o perlomeno uno molto, molto fuori posto.
Sarà pietà, sarà che salire su un Intercity ci rende tutti più buoni, accadono cose che sulle Frecce non ho mai avuto il piacere di sperimentare. Una compagna di scompartimento mi offre un po’ della sua acqua. Un’altra mi chiede se voglio chiamare a casa per avvisare che farò tardi. All’altezza di Modena, il controllore con l’accento bolognese ci porta una specie di kit d’emergenza – acqua, tarallucci, succo di frutta – che Trenitalia offre sulle lunghe tratte, in caso di forte ritardo. Oltre che coglione ora mi sento pure un po’ “emergenza umanitaria”.
Tra Parma e Lodi rimaniamo solo io, il controllore bolognese e una ragazza di Giulianova che sta salendo a Milano per cercare lavoro: «Ho vissuto per anni a Roma, poi sono tornata in Abruzzo – mi racconta -, ma lì è tutto fermo, non si va da nessuna parte. Non ce la faccio più». Il controllore bolognese annuisce.
Gli chiedo degli Intercity: «Fino a qualche anno fa erano, di fatto, il cuore del sistema ferroviario italiano – mi racconta – collegavano la provincia». Poi sono arrivate le Frecce, rosse, bianche e argento, e gli Intercity sono diminuiti di un terzo circa nel giro di cinque anni e sono diventati il treno di quella che lui chiama «la fascia bassa»: «Immigrati, anziani – argomenta -. Non tanto e non solo poveri: gente che non sa comprare un biglietto su internet, cercare un tariffa economica che gli consenta di risparmiare anche con le Frecce o con Italo, che non vuole prendere un aereo». «Se fosse per l’azienda non ci sarebbe più un Intercity in circolazione – continua -, se ci sono è per far viaggiare questa gente qui». L’Italia pre-digitale, nonostante l’iPhone. Che nelle urne ha ancora il suo peso. L’Italia più Italia.
«La gente qualche anno fa mi diceva: ”Vedrete quando arriverà la concorrenza, sarete costretti a migliorare”» – continua il controllore -. Avevano ragione, in fondo: con la concorrenza l’azienda ha investito dove conveniva e tagliato tutto quel che era in perdita. I treni notte, gli Intercity, il servizio pendolare». E oggi, spiega, «abbiamo uno dei servizi ad alta velocità migliori al mondo, mentre il resto è da terzo mondo». Ricaccio in gola luoghi comuni sulla “metafora del Paese”. Il treno sbuffa e si ferma a Lodi. Mentre scendo le scalette, sento il ronzio di un rasoio elettrico che proviene dal bagno.