Un anarchico del 1955 era molto più cristiano di molti cristiani del 2015

. Albert Camus, foto di: Robert Edwards (Wikipedia Commons) Esistono, nella dinamica di discorsi, saggi, lettere, romanzi, film e di tutti gli altri atti di comunicazione umani, perfino delle chiac...

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Albert Camus, foto di: Robert Edwards (Wikipedia Commons)

Esistono, nella dinamica di discorsi, saggi, lettere, romanzi, film e di tutti gli altri atti di comunicazione umani, perfino delle chiacchiere, dei concetti laterali. Mentre ascoltiamo quei discorsi, mentre leggiamo quei saggi, quelle lettere e quei romanzi, mentre partecipiamo a quelle chiacchiere, questi concetti ci sfuggono. Il 99 per cento di quei granelli di sabbia concettuale ci sfuggono tra le mani. Il 99 per cento. Quell’1 che manca, invece, dopo un po’ torna.

Settimana scorsa ho letto la trascrizione di un dibattito che si svolse nel 1955 ad Atene. Tra gli ospiti, quello a cui volevano tutti fare domande era il francese Albert Camus. Tra le tante parole che il francese spese nelle tante risposte alle domande che gli vennero poste — quasi tutte riferite alla natura e al futuro dell’Europa — ne ho letto alcune che parlavano anche d’altro e che, proprio come uno di quei concetti laterali di prima, non ho dimenticato. Uno di quelli che fa parte di quell’1 per cento di cui sopra.

Era il 28 aprile del 1955, e ad Atene si parlava dell’utopia di creare un’Europa senza confini interni, un’Europa i cui le strutture post feudali degli stati nazione si potessero dissolvere, una vera nuova creatura, non un Frankenstein di pezzi morti come la conosciamo ora. Un greco di cui ora non ricordo il nome ci sperava. Camus pure, ma, forse perché, rispetto al greco, conosceva meglio i suoi simili, seppe essere realista, anche se in quel momento pensava solo di essere pessimista. Insomma, disse una frase di quelle spesse, con dentro un sacco di roba su cui varrebbe la pena riflettere, tra cui, un finale grandioso:

Le ferite della guerra appena conclusa sono troppo fresche perché possiamo sperare che delle collettività nazionali facciano questo sforzo di cui sarebbero capaci soltanto degli individui superiori e che consiste nel dominare i propri risentimenti.

Dominare i propri risentimenti… assomiglia molto ad un messaggio cristiano e forse lo è, ma a patto che quel povero Cristo che, da duemila anni, fa da prefisso all’aggettivo, fosse un uomo, e non come pensano in un bel po’, un dio. Qua dio non c’entra nulla, qua dio è l’uomo e, potenzialmente lo siamo tutti.

Camus era un marxista, e lo era talmente che come tutti i marxisti intelligenti, a un certo punto lascia il partito comunista e continua la sua strada da anarchico, ovvero da individuo che ha capito che la legge non serve se non a dividere il mondo tra chi la applica e chi la subisce, e che le leggi vere sono dentro ognuno di noi, che si insegnano con l’esempio, e che, per elevarsi di un gradino da quell’essere umano che negli ultimi millenni si è scannato per il potere, non serve una religione, ne tantomeno un dio — che se è a immagine e somiglianza d un mostro, è un mostro, anche se si chiama dio — ma basta credere negli uomini.

L’evoluzione a cui accenna Camus riguarda quelli che chiama individui superiori. Quando il francese dice superiori, però, non intende superiori per potere, né per possesso di denaro, né tantomeno per l’avere nelle vene sangue di antenati nobili. No, quando dice superiori, Camus parla di una qualità molto rara: la capacità di dominare i propri risentimenti.

Albert Camus disse quella frase nel 1955. 15 anni prima dell’ottenimento in Italia del diritto a rompere il legame del matrimonio; 23 anni prima del diritto all’aborto; 26 anni prima che uscisse dalla legge il delitto d’onore e il matrimonio riparatore.

Da quel giorno sono passati sessant’anni, e noi non solo non siamo diventati quegli individui superiori che Camus sperava diventassimo, ma siamo diventati ancora più bestie, ancora più laidi e mostrificati, incapaci di provare la minima compassione per chi ci sta attorno.

Le ultime tappe di questa linea involutiva le ho viste sabato, quando decine di migliaia di persone, a Roma, hanno manifestato contro il diritto di altre milioni di vedere allargati i propri diritti senza che nessun diritto di altri venga intaccato; mentre altre migliaia, a Pontida, hanno ascoltato plaudenti un capopopolo che cavalca la loro rabbia e la loro ignoranza, abdicando a un sacco di cose che proprio dal messaggio cristiano abbiamo — e hanno pure loro, in teoria anche più di me — ereditato: solidarietà, compassione, misericordia.

Migliaia di persone che anche se fossero un milione sarebbero comunque la netta minoranza di questo paese. Persone che sbraitano contro i potenziali diritti di altri milioni di persone e che lo fanno brandendo simboli a cui è appiccicato quello stesso aggettivo “cristiano” di cui sopra. Un aggettivo di cui ne sapeva molto di più Camus, e di cui ne so molto di più io, rispetto a quelle migliaia di persone che Cristo lo pregano tutti i giorni, ma che sabato, se lo avessero avuto davanti sulla croce, non l’avrebbero distinto dai due ladroni che gridavano di voler uccidere.

Io non sono battezzato, ma non mi serve essere bagnato con l’acqua stantia di un battistero, né mi serve mangiare una pastiglia di finto pane pensando, come i cannibali, che mangiando un pezzo del mio dio possa diventare un po’ come lui. A me non serve una essere cristiano per essere più cristiano di loro. Come lo era Camus: un anarchico esistenzialista ateo del 1955 che era molto più cristiano di un Mario Adinolfi del 2015.

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