«Ho la sudda pronta» (dove sudda è l’erba con cui si nutrono le pecore), «ci sono le cesoie da molare», «bisogna tosare le pecore», «il formaggio è pronto da ritirare», «ho attaccato lo spargi concime», «ti ho messo la ricotta da parte, passi più tardi?». Messaggi in codice come tanti le microspie dell’antimafia ne hanno registrati in anni di indagini, non solo riguardanti il boss più ricercato. Così comunicava quella che è stata definita la “rete di comunicazione” di Matteo Messina Denaro, boss di cosa nostra latitante dal 1992 e primula rossa dell’organizzazione.
Leonardo Agueci, Salemi, 28 anni, Ugo Di Leonardo, Santa Ninfa, 73 anni, Pietro e Vincenzo Giambalvo, 77 e 38 anni, padre e figlio, Sergio Giglio, Salemi, 46 anni, Michele Gucciardi, Salemi, 62 anni, Giovanni Loretta, mazarese, 43 anni, Giovanni Mattarella, Mazara, 49 anni (genero di Vito Gondola), Giovanni Domenico Scimonelli, Partanna, 48 anni, Michele Terranova, Salemi, 46 anni, sono stati arrestati su mandato della procura di Palermo: per gli inquirenti, che li hanno registrati e fotografati, sono i responsabili dello smistamento dei pizzini da e per Messina Denaro, 52enne “fantasma di Castelvetrano”.
L’indagine chiamata “Ermes” è un seguito di Golem e Golem II, ovvero le operazioni che in questi anni hanno cercato di fare terra bruciata attorno al boss trapanese, e ha permesso agli investigatori di osservare il traffico dei pizzini e delle comunicazioni di Messina Denaro tra il 2012 e il 2014. A febbraio 2014 il meccanismo si interrompe: il cugino del boss, l’imprenditore Lorenzo Cimarosa, collabora con gli inquirenti e il flusso dei pizzini si ferma. «Una pisciata fora du rinale», definisce Gondola, uno degli arrestati di oggi, la collaborazine di Cimarosa.
Su La Stampa Rino Giacalone nota come lo stesso Gondola, personaggio chiave dell’inchiesta, detto Vito Coffa, faccia parte di rapporti giudiziari sin dagli anni ’70. Allora faceva parte della banda Vannutelli che la mafia utilizzò, in alleanza con l’eversione di destra, per mettere a segno alcuni sequestri, come quello del salemitano Luigi Corleo e del professore universitario Nicola Campisi. Tutto scritto in un rapporto dell’allora capo della Mobile di Trapani, Giuseppe Peri, che però le Procure interessate preferirono farne carta da archivio.
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