Le manifestazioni che domenica 16 agosto hanno portato in piazza centinaia di migliaia di oppositori del governo di Dilma Rousseff (rieletta nell’ottobre scorso alla presidenza brasiliana con un ristretto margine sullo sfidante conservatore Aécio Neves) sono certo un segnale della persistente, grave impopolarità dell’erede di Lula, ma forse marcano la fine del periodo più nero per la presidente in carica.
Incapace di affrontare la peggiore congiuntura economica degli ultimi 15 anni, accusata di aver mentito in campagna elettorale, messa sotto accusa dal Tribunal de Contas da União (la Corte dei Conti brasiliana) per aver “truccato” i conti 2014, sfiorata a più riprese dall’inchiesta Lava-Jato (che ha svelato un immenso schema di corruzione intorno ai contratti del gigante petrolifero di stato Petrobras, con le tangenti che finanziavano a pioggia le campagne dei principali partiti, Partido dos Trabahadores in testa, in un’epoca in cui la Rousseff era presidente dell’impresa), a lungo Dilma è parsa sull’orlo dell’interruzione anticipata del suo mandato. Per settimane, mesi, la questione non è stata “se”, ma “come” il suo secondo quadriennio, peraltro appena iniziato, si sarebbe interrotto, se per impeachment (come successe al suo predecessore Fernando Collor de Mello a fine 1992) o per rinuncia, di fronte all’ingestibilità di una crisi economica e politica che l’aveva privata di ogni spazio di manovra. A minare ulteriormente la sua credibilità, l’arresto nelle scorse settimane di José Dirceu, storico esponente del PT, già condannato per lo scandalo del mensalão, e le voci sempre più insistenti di un coinvolgimento di Lula, il suo padrino politico e storico capo carismatico del Partido dos Trabalhadores.
La strategia dell’opposizione era quella della spallata, esercitare la massima pressione su un governo delegittimato dalla tenaglia crisi economica-delegittimazione etica per indurlo alla resa, gli strumenti erano le manifestazioni di piazza e la pressione mediatica di tv e giornali amici. Collor, del resto, era caduto per molto meno, e anche in quel caso la piazza aveva fornito sostegno e legittimità al processo di impeachment.
Le piazze si sono riempite tre volte, a marzo, aprile, poi domenica 16 agosto, in un crescendo di toni: “Dilma, peccato non ti abbiano impiccato nel DOI-CODI (il servizio informativo della dittatura che l’arrestò e torturò a inizio anni ‘70, n.d.r.)” recitava un cartello impugnato da due distinte signore domenica scorsa, mentre si moltiplicavano quelli che inneggiavano al ritorno al potere dei militari.
Ma i manifestanti erano sempre meno, e d’altronde le proteste di piazza non hanno prodotto alcuna piattaforma politica che non sia l’avversione al governo in carica, lo stesso leader del PSDB, il candidato sconfitto Aécio Neves (a sua volta non immune da sospetti di malversazione) non ha brillato per capacità di leadership. Al tempo stesso, la politica si è rimessa in moto.
Lobby economiche e media hanno preso atto che, non riuscendo la spallata, una situazione di persistente, forte instabilità politica era contraria ai loro interessi, in una congiuntura economica già molto fragile.
Il presidente del Senato, l’alagoano Renan Calheiros, del partito alleato di governo PMDB, anch’egli peraltro chiamato in causa nell’inchiesta Lava-Jato, e per questo distanziatosi nei mesi passati da Dilma, che accusava di non averlo protetto, si è reso conto che la salvezza del governo era anche la sua. Ha preso a ricucire i rapporti tra gruppi parlamentari e governo, un’operazione in cui nei mesi scorsi aveva fallito il vice di Dilma Michel Temer, suo collega di partito. È stato così isolato il presidente della Camera, Eduardo Cunha, anch’egli PMDB (partito “pigliatutto” che esprime una forte varietà di posizioni politiche), rimasto solo nell’opera di costante sabotaggio al governo. Dilma e i suoi ministri hanno – perlomeno in attesa che passi la buriana – di fatto rinunciato all’agenda sociale che era il marchio di fabbrica del loro esecutivo, già nei mesi scorsi pesantemente annacquata dalle scelte liberiste del Ministro della Fazenda Joaquim Levy (scelto all’indomani della rielezione proprio per puntellare un esecutivo uscito vincitore di stretta misura), garantendo l’appoggio alla piattaforma Agenda Brasil dello stesso Calheiros, che smantella molte delle conquiste sociali recenti, prima tra tutte l’universalità dell’assistenza sanitaria gratuita.
Un segnale evidente del nuovo corso sono le posizioni di grande prudenza di Fiesp e Firjan (le “Confindustrie” di San Paolo e Rio de Janeiro), e più ancora il tono con cui Rede Globo (di gran lunga il maggiore conglomerato mediatico del paese, un potentato che ha sempre avuto grandissimo peso nell’orientare l’opinione pubblica) ha coperto gli eventi di domenica, culminato con l’espulsione di una sua troupe dal corteo che sfilava lungo il calçadão di Copacabana, con la reporter accusata di essere “comunista” (e chi conosce il Brasile può capire la paradossale, involontaria ironia dei manifestanti, come rivolgere un epiteto analogo a un cronista del Giornale o di Libero).
Certo, tutto può ancora accadere. L’inchiesta Lava-Jato è in pieno svolgimento, i suoi inquirenti – come all’epoca di Mani Pulite da noi – non vanno troppo per il sottile nel disporre misure coercitive, e lo stesso Lula, in questo momento un comune cittadino, potrebbe entrare nel mirino del giudice Moro, l’eroe dei manifestanti di domenica. Il suo eventuale arresto sarebbe devastante per il PT, il governo e per Dilma, che per questo pare gli abbia offerto un posto da ministro, che gli garantirebbe l’immunità, del resto subito rifiutato dall’ex sindacalista, che resta il maggior patrimonio del suo partito e dell’intera sinistra brasiliana.
La fine anticipata del mandato di Dilma Rousseff resta ancora possibile, ma comunque vada le giovani istituzioni democratiche brasiliane hanno finora dato prova di grande solidità.