Leggevo ieri sulla pagina on line di Repubblica la lettera di una insegnante che rifiutandosi di fare la domanda per l’assunzione in ruolo, motivava la scelta con l’esigenza di non cambiare luogo di residenza, in cui si sono sedimentati i suoi affetti e i suoi legami vitali.
I commenti all’articolo erano per lo più critici, contestando sostanzialmente alla collega l’assurdità della sua pretesa, a fronte di una possibilità che lei avrebbe di sistemarsi in un contesto lavorativo oltremodo precario. Molti evocavano la differenza tra mondo del lavoro privato e pubblico impiego, imputavano alla collega il suo atteggiamento presuntuoso, e la sostanziale ignoranza delle “vere” condizioni in cui si svolge il lavoro privato, quelle cioè di una completa esposizione alle esigenze aziendali di mobilità.
Ho pensato a un libro letto anni fa Tribolazioni di un insegnante di ginnasio. Vi si raccontava di un giovane insegnante che, dopo vinto il concorso nazionale, veniva trasferito da Torino a un posto sperduto in Sicilia, privo di ogni minima infrastruttura, esposto alla misera vita di mera sopravvivenza del contesto ambientale del sud degradato di fine ottocento. Ammalatosi, egli muore. Ma la cosa da notare è la mobilità, paragonabile a quella di un militare, alla quale, evidentemente, il giovane borghese non seppe adeguarsi, stante anche la condizione sanitaria ambientale malagevole che lo fece ammalare. Evidentemente questa era una condizione abbastanza comune degli insegnanti, che, si badi, avevano sì un contratto paragonabile al grado più basso di un magistrato, ma che, pure, avevano un mandato, e dovevano sobbarcarsi l’onere di una mobilità in tutto il territorio del neonato Stato unitario. Stranamente pochi hanno notato questo aspetto ottocentesco e statocentrico della riforma Renzi.
Oggi ho letto un breve fondo di Marco Lodoli, sempre su Repubblica, che dice che i giovani possono ben pensare di spostarsi, ma un quaranta-cinquantenne di oggi non lo può più fare con altrettanto entusiasmo , date le strutture materiali di esistenza (familiare, affettiva, economica) in cui è impegnato. E’ sicuramente tutto vero. Quando ero giovane mi spostai cercando il lavoro di insegnante al nord, e ora vivo in Trentino dove, per fortuna, essendo la locale scuola afferente all’autonomia della Provincia, non debbo sobbarcarmi lo stressante fardello di fare domanda in tutta Italia per essere assunto. Farei la domanda? Si, per la mia condizione personale, in cui posso in parte essere ancora aiutato dalla mia famiglia, e non ho una vera e propria mia famiglia da mantenere, (non è del tutto vero, ma mi appello al diritto di privacy). Ma ciò non toglie che comprenda le legittime rimostranze della collega.
L’insegnamento non è tuttavia una professione qualunque. Per come era stato pensato dai padri costituenti, doveva essere molto più una magistratura che un impiego di natura amministrativa. Si trattava di avere competenze spazianti da quelle contenutistiche a quelle psicologiche, da quelle sociologiche a quelle tecnico amministrative. E per di più, si trattava di rappresentare lo Stato in un contesto in cui la crisi – oggi sempre più permanente – non aveva intaccato il senso dell’appartenenza ad un ordine istituito.
Ma in era di neoliberismo, la precarietà, alla quale soggiacciono tutti o quasi i giovani lavoratori (compensata , fino a qualche anno fa, per i lavoratori della scuola, dal prestigio sociale, sentito da molti come una motivazione ancora valida per intraprendere questa professione) è la realtà. E quella professione, benchè precaria, oggi paradossalmente è vista come un residuale privilegio da una platea molto più estesa di lavoratori atomizzati, denegati nel diritto alla stabilità esistenziale (tipico prodotto di quella che Bauman chiama società liquida). E chi svolge la professione docente, deve anche difendersi dall’accusa di appartenere a una minicasta, che si permette, per di più, anche di sputare nel piatto di una riforma che vuole stabilizzarlo. Data la natura dei problemi storici relativi al reclutamento degli insegnanti- che qui non posso ricostruire ma che agilmente possono essere trovati spulciando qui e là su internet – ci si è trovati in un combinato disposto di dato di fatto e di velleità riformatrici, che laddove incomplete hanno aggravato, lungi dal semplificare, il già precario equilibrio tra funzione docente e mondo della scuola. Insomma un caos. La cosidetta complessità del reale.
Quello che mi sento di consigliare ai commentatori delle pagine on line di Repubblica è di non giudicare ciò che non possono comprendere perché non si trovano nelle medesime condizioni. O farlo solo dopo essersi «messi nella testa di un altro», prima di dire quello che dovrebbe o non dovrebbe fare. Lo diceva Kant. E, molto più modestamente, mio padre: «Dio aspetta la fine dei tempi per giudicare, chi siamo noi per poterlo fare adesso?».