Silvio non è finito. I berlusconiani non si esaltino: non si tratta di un dato di fatto, ma solo delle esternazioni che ieri l’amico di sempre Gianni Letta ha affidato a un portale di notizie italiano. Il suo non è un parere come un altro. L’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri conosce – e ci ha tenuto a ricordarlo anche agli immemori – ogni dislivello degli scranni di Palazzo Chigi. Se non altro, per aver contribuito a crearne, di dislivelli. La sua è una politica fatta di sussurri a orecchie istituzionali che ha in personaggi come Andreotti l’esempio da seguire, e in “federatori” come Luigi Bisignani le leve più recenti. Eppure se c’è da urlare – concettualmente, mai nel pratico – che Berlusconi non è morto, Letta riesce ad abbandonare senza difficoltà l’impostazione “british”, quella, cioè, di uno all’apparenza più interessato alla cultura che agli affari di potere. Che fa e tanto, ma sempre in maniera discreta, senza dare nell’occhio.
«Lo hanno dato per finito – ha detto riferendosi al Cavaliere – tantissime volte, ma lui è sempre resuscitato». Si badi alla scelta dei termini, che in qualche modo disegnano un filo diretto tra il leader ormai onorario del centrodestra e contesti molto meno terreni. Non un caso isolato, almeno dando per buono l’assunto popolare in psicoanalisi secondo cui dietro la scelta di ogni parola si celino aspetti non esattamente di superficie. Così a Letta, uno dei padri (non a caso) del Patto del “Nazareno”, non può non affascinare (lo confermano le sue “scelte di vita”) l’idea che la longa manus del centrodestra possa essere risolutiva quanto l’azione delle sfere divine. Ma, tolte le manovre più o meno ingombranti, sembra che in realtà dei vecchi, discussi, fasti del Caimano, sia rimasto, checché se ne dica, poco. I tempi migliori sono ormai andati, e per riacciuffarli non bastano una biografia sulle sue gesta – idea rincorsa con tenacia e alla fine portata a termine dal giornalista e scrittore statunitense Alan Friedman – o i recenti scatti canini. Neppure l’esibizione di una (minima) parte di ricchezza accumulata nella villa di Arcore, assurta martedì scorso a novella Domus Aurea e catapultata in prima serata nelle case dei telespettatori di Ballarò. Una dimora concepita per ospitare – oltre a procaci donzelle – tutte le vecchie glorie, dai trofei calcistici ai discutibili successi diplomatici e internazionali che Berlusconi è convinto di aver ottenuto («Questa è la stretta di mano per la fine della Guerra fredda»), dalle tele di valore a foto di lui sedicenne, quando cantare in francese a bordo di navi crociera ed era «sempre il più bello della compagnia». Oggetti, feticci, ostentazioni che servono a ricordare a se stessi e agli altri (telespettatori – elettori, sempre che l’elezione dei propri rappresentanti torni un giorno di moda) quello che si è stato e, forse, non si sarà più. Oppure esperienze da politico navigato, si direbbe scafato, esibite quasi per intimorire chi, come Salvini, si vuole imporre come il nuovo leader populista di un centrodestra storicamente in grado di trasformare il dissenso in consenso politico, manovra attualmente rimessa alle mani del Premier Matteo Renzi.
10 Ottobre 2015