Roma kaputt. Non caput mundi, non “Capitale del Mondo”. Kaputt. Kaputt come “finita”, “distrutta”, “morta”. Le dimissioni del sindaco Marino non sono il semplice e banale epilogo di una cena pagata a male. Le dimissioni di Marino, probabilmente, sono la transizione da una fase storica ad un’altra. Almeno per quanto riguarda Roma.
Sarebbe da sciocchi pensare che dietro un tale epilogo non ci sia stata la convergenza dei tanti nemici che questo sindaco si era fatto, ma sarebbe altrettanto sciocco negare l’evidenza: Marino non si era solo messo contro tutti i poteri forti. Marino si era messo contro tutti. O quasi.
Il sindaco si è dovuto dimettere in quanto prigioniero delle sue presunte verità. Si è dovuto dimettere perché da candidato paladino della trasparenza e della rettitudine si è fatto sbugiardare da qualche cena di troppo, ma ancor prima dal Papa in persona.
Marino per certi versi è stato il nostro caso Volkswagen. Entrambi beccati a mentire su questioni relativamente rilevanti per il proprio audience (le cene, gli inviti, le emissioni), ma abbastanza potenti da minare seriamente la credibilità del marchio e dello storytelling.
Se nel caso Volkswagen è bastato un colpo di spugna alla dirigenza per chiudere un capitolo e provare a scriverne un altro (sì, ci vorrà del tempo), nel caso Marino le dimissioni erano l’unico finale possibile per l’avventura del sindaco al Campidoglio e probabilmente per la sua avventura politica. La grande differenza tra lo scandalo che ha colpito l’azienda di Wolfsburg e il sindaco di Roma sta nel fatto che i primi si son messi contro tutta la concorrenza (cercando di arginare la conflittualità con i clienti, il “popolo”); l’ex primo cittadino, invece, non soddisfatto del conflitto con i poteri forti e meno forti della sua città ha anche deluso la fiducia dei suoi concittadini.
Il futuro
Adesso il sindaco – lo prevede la legge – ha 20 giorni per ripensarci. E se è inimmaginabile un ripensamento in assenza di una maggioranza che lo sostenga (a proposito: perché il Pd è stato così lento e silente nel prenderne le distanze a tempo debito?), non è improbabile che il Partito democratico consegni la guida della città ad un tecnico che dirà di non voler fare il politico. Una sorta di Mario Monti, forse una donna, ma più effervescente. Obiettivo: sistemare un po’ di buche, avviare un’operazione simpatia e candidarlo/a alle elezioni di primavera forte (o debole) del successo (o dell’insuccesso) del Giubileo.
Una soluzione del genere – tra l’altro già successiva al commissariamento parziale di Roma – fa senz’altro comodo al Pd ma non a Roma. Lasciare la Capitale di Italia in balia di un Commissario non eletto, in un momento tanto importante è un insulto allo stesso concetto di democrazia. L’ennesimo affronto al concetto di sovranità popolare. Giusto per fare un parallelismo: come avremmo giudicato Tsipras se dopo il no referendario si fosse presentato all’Europa dicendo sì alle condizioni di Bruxelles? Male, molto male. Il fatto che poi Tsipras quel voto l’abbia in parte ignorato, resta. Ma Tsipras prima di ripresentarsi in Europa si è ripresentato davanti ai propri elettori. E lo ha fatto chiedendo un mandato forte. In nome della democrazia.
In questo scenario la scalinata del Campidoglio sembra già drappeggiata a festa per il Movimento 5 Stelle, a meno che…a meno che il centrodestra non abbia l’unità, la forza e il coraggio di scegliere un candidato sindaco e un posizionamento che possa sedurre l’elettorato di centrosinistra ed essere credibile agli elettori di centrodestra.
Si tratta di un’operazione complicata. Ma se è vero che le prossime elezioni le si vincono sul terreno della credibilità e dell’affidabilità, la strada che i diversi partiti sono in qualche modo costretti a percorrere appare obbligata. Da un lato ci sarà un Pd dalla credibilità potenzialmente compromessa (troppo attendismo nello sfiduciare e nel difendere Marino più l’eventuali responsabilità di un eventuale commissariamento). Dall’altro un centrodestra la cui vera missione sarà quella di sapersi riunire attorno ad un candidato/a forte, ma nuovo/a e innovativo nell’approccio. Un candidato in grado di occupare uno spazio di centro deserto e conquistare quell’elettorato, anche del Pd, che non si sente pronto per il passaggio da un sistema (quello dei partiti e delle liste civiche) ad un altro (quello del movimentismo grillino). Certo: è una missione quasi impossibile. Ma se il centrodestra vi riuscisse al Movimento 5 Stelle non resterebbe che un solo jolly per prendersi Roma: schierare il suo volto più “affidabile”. Candidare Luigi Di Maio. Del resto – come dichiarato da Roberta Lombardi in un’intervista a Marco Sarti – né lei né Alessandro Di Battista si candideranno. Il suo “no” Di Battista l’ha anche ribadito personalmente in un’intervista rilasciata oggi ad Annalisa Cuzzocrea di Repubblica.
Dunque sarà il web a decidere. Ma appare lampante che la tappa obbligata per un Movimento che ambisce a guidare il Paese sia quella de pijasse Roma. E se davvero sarà lui, Luigi Di Maio, il candidato grillino per Palazzo Chigi viene da chiedersi: quale miglior trampolino di lancio se non Roma?