Erano 28 i giorni citati dal titolo del film cult di Danny Boyle, quelli successivi alla propagazione del male. Un terribile virus. L’inizio dell’apocalisse, diciamolo.
Il virus non era uno di quelli tipici da film di zombie, che crea schiere di non morti decomposti e un po’ decerebrati. Era decisamente peggio: rendeva gli infetti terribili, sanguinari, famelici, velocissimi, imprevedibili, rabbiosi. Una Londra deserta, gruppi di uomini impauriti, che cercano di sopravvivere e fin troppo spesso diventano nemici gli uni degli altri. Non vi dirò il finale, perché dovreste vederlo.
28 giorni dopo racconta la guerra per la sopravvivenza di gente normale, che vorrebbe starsene tranquilla, apprezzando “il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione” per fare un’altra citazione cinematografica (da V per Vendetta, discorso alla nazione).
9 giorni dopo la strage di Parigi del 13 novembre, si è propagato un nuovo virus. A portarlo non sono persone infette da un virus vero e proprio, ma dall’odio e dalla rabbia.
Quello che è successo dopo è la nostra guerra per la sopravvivenza
In questi 9 giorni di allarmi bomba, metropolitane bloccate, continui aggiornamenti mediatici su ciò che è capitato e avvertimenti su quello che potrebbe capitare, ci sono volute le palle per vivere nelle nostre città. In particolare, ci vogliono le palle per vivere a Roma, a Bruxelles, a Parigi. Vivere nonostante tornino davanti ai nostri occhi continuamente i volti degli assassini sui social network, quelli delle vittime, risuonino nelle nostre orecchie le parole dei terroristi in video. Quelli con i simboli delle nostre città dati alle fiamme. L’odio. La psicosi.
9 giorni dopo, prendere la metropolitana a Roma vuol dire guardarsi bene intorno alla ricerca di giovani mediorientali con borsoni al collo. Anche gli hipster hanno tagliato la barba. Disdicevole? Eppure è così. Vuol dire vedere militari armati fino ai denti scrutare allo stesso modo gli stessi borsoni. Vuol dire salire sul vagone più vuoto e sedersi vicino alle porte. Un occhio a osservare chi sale, un occhio alla maniglia di emergenza. Ci si guarda intensamente come quando si gioca a Poker: e se oggi, e se ora, e se tu…
9 giorni dopo, parlare dell’attentato di Parigi vuol dire immaginare come, quando e se accadrà anche a noi. E poi l’immancabile sfottò. Infatti, se a Roma il 90% del suolo è sacro, il 90% dei romani è dissacrante. Il romano è bullo, la sua reazione è immediata: dai tempi dei Papi e della ghigliottina in piazza.
Ciò che fa paura si prende per il culo.
“Ma questa Isis quando si deve pagare?”
9 giorni dopo, si va al centro commerciale e al cinema come se niente fosse successo. Abbiamo cercato le ragioni per cui non accadrà anche a noi, e a volte le abbiamo trovate. Sono sempre le stesse:
“Ma a noi chi ce se fila! Contiamo come er due de coppe quando briscola è bastoni.
Nun ce avemo manco il sindaco!”
9 giorni dopo è tornato il week end e siamo tornati tra le piazze e i locali. Ma con gli occhi e le orecchie bene aperti, riscoprendo il fascino appartato della periferia. Dopo una settimana difficile, ci siamo detti che non toccherà proprio a noi, non sarà proprio oggi, non c’è ragione per cui dovrebbe accadere. Anche se poi, alla fine, non ci crede nessuno fino in fondo. Non c’era alcuna vera ragione perché fosse versato il sangue di tutti quei giovani al Bataclàn, non ce n’era neanche per tutti gli altri morti e feriti del 13 novembre. E allora si comprende che le chiacchiere stanno a zero. Tocca solo tirare fuori le palle e tornare a campare.
Roma, 22 novembre 2015