Dopo il 13 novembre sembra essere cambiato molto nella nostra percezione quotidiana. Anche chi normalmente si disinteressa del «mondo grande e terribile» si è visto piombare in casa , attraverso gli schermi della televisione o i desk dei computer, gli eventi traumatici di Parigi, che lo hanno ridestato dal solito torpore in cui, mediamente, viveva le proprie giornate, tra lavoro, studio, famiglia, normale ricerca di svago. In questi giorni leggiamo della necessità di parlare ai bambini di quanto sta succedendo. Io vorrei parlare piuttosto degli adolescenti che mi sono affidati nella mia professione, di quanti frequentano la scuola, e lo faccio dall’osservatorio privilegiato di insegnante storia e filosofia in un liceo.
Il giorno successivo alla tragica strage di Parigi ho fatto leggere in una classe un editoriale del direttore del Sole24ore, che si sforzava di parlare con toni razionali e solenni di quanto era accaduto, cedendo pochissimo all’irrazionalità delle emozioni. Ma i ragazzi sembravano leggere quel testo come qualcosa che non toccava il loro bisogno di chiedere i motivi profondi dell’accaduto, di cercare le cause, di razionalizzare, in senso anche psicologico, quel sentimento di sgomento e spaesamento che avvertivano. Gli adolescenti non si accontentano di spiegazioni superficiali. Per loro, forse, era la prima volta che nella vita quotidiana facevano ingresso in maniera concreta, sulla carne viva e all’interno dell’immaginario, parole come terrorismo, guerra, fondamentalismo Non che questi temi fossero alieni dalla loro cognizione razionale, ma piuttosto erano e sono – qui in Italia – alieni dalle loro emozioni, non erano mai stati collegati realmente con la paura per l’incolumità di sé e dei propri cari. Quei ragazzi morti a Parigi erano poco più grandi di loro, e stavano facendo cose che anche loro potevano fare e fanno, in una qualsiasi serata di una qualsiasi città italiana: divertirsi con gli amici, ascoltare musica, mangiare una pizza in un locale. I miei alunni chiedevano a me, come adulto e insegnante, quindi in teoria titolato ad avere le risposte, quello che nemmeno io in quel momento sapevo offrire: una comprensione profonda, argomentata, non superficiale delle cause di questi eventi. Il lunedì successivo nella mia scuola è stato osservato un minuto di silenzio per commemorare la strage, a mezzogiorno. E suppongo che, come ho fatto io, nei venti minuti successivi prima della campanella di uscita, molti colleghi si saranno fermati a parlarne dell’accaduto, con lo sguardo sinceramente sgomento e avvilito. Per alcuni giorni successivi sono entrato in classe cercando di sospendere l’attenzione su quei fatti, di continuare la vita normale, di tenere nello sfondo quella cosa enorme in cui siamo piombati, e intanto pensavo che io stesso avrei dovuto informarmi meglio, studiare e leggere, fare un’opera di chiarificazione innanzitutto per me. E intanto nelle pause, direi anche nelle virgole del mio insegnare, accennavo all’evento, senza però soffermarmi a parlarne tematicamente, a discuterne con gli alunni. Poi sono stati loro stessi a chiedere: «Prof, tutti gli insegnanti fanno la stessa cosa, accennano e tacciono, ma noi vogliamo parlare, capire, adesso. Per favore possiamo fermarci?». E così mi sono fermato. Ho detto quanto sto pensando da giorni, che quei terroristi credono nel contrario di quanto noi insegniamo e impariamo a scuola, la convivenza, la pace, la tolleranza, il rispetto di ogni diversità, la democrazia. Ho detto che l’educazione è il vero antidoto per evitare queste derive di odio, ma ho detto anche – aimè- che di fronte ad un attacco armato non bisogna abbassare la guardia, ci sono momenti in cui parlare di diritto alla difesa armata può non essere sbagliato. Non volevo e non voglio illuderli, e da adulto ho il dovere di presentare la storia e l’attualità con il realismo che impegni la coscienza di quanti , tra non molto, si affacceranno alle responsabilità civili, andranno all’università, si prepareranno ad essere cittadini e classe dirigente di questa Repubblica. Ho compreso quanto per loro questo fatto fosse sconvolgente: non hanno vissuto come me il periodo delle stragi di mafia, e lo choc dell’undici settembre: «Prof, avevamo quattro anni nel 2001!». Certo, lo avevo dimenticato. Sono passati quindici anni da quando noi adulti sappiamo che il mondo è in guerra, una guerra nuova, dissimile per molti aspetti da quelle che studiamo a scuola. Ma pur sempre una guerra. Oddio, «guerra», che parola enorme! Proprio il fatto di doverla usare come qualcosa di concreto, e non solo affidata alla storia, turbava anche me mentre ne parlavo. Ho spiegato , ad esempio, che il discorso di Hollande al parlamento riunito di Francia evocava proprio questa parola, parola che postulava alleanze, mobilitazione di truppe, combattimenti, presa di coscienza condivisa di affrontare uno stato d’eccezione. Trovare le parole giuste per me era ed è difficile, soprattutto evocando temi delicatissimi come il fondamentalismo religioso, nella sacrosanta consapevolezza di dividere religione e fondamentalismo. Ho constatato, contrariamente a quanto spesso si pensa, che questi ragazzi sono maturi e saggi. Diffidano delle parole estreme, trovano esagerato parlare di «guerra di civiltà», ad esempio. «Prof, ma anche quelli che hanno sparato erano giovani». «Sì, ho risposto, erano giovani, e vissuti nelle nostre stesse città occidentali, hanno sentito la stessa musica, e tifato per le stesse squadre di calcio». «Prof che succederà ora»? «Non lo so. Non lo so, devo ammettere anche io non lo so.» Ma forse lo so. Dobbiamo continuare. Io a studiare e insegnare, voi a studiare e ascoltarci. Continuare senza negare la paura, ma accettandola, e così accettando talvolta l’assurdità di un mondo che, quanto più sembra progredito in tecnologia e sviluppo (ineguale), tanto vede ripresentarsi le pulsioni aggressive che minacciano nel profondo l’essere umano.
Con una terza liceo alla fine di Novembre siamo andati in visita d’istruzione alla scuola della pace di Montesole, abbiamo passato due giorni in quei luoghi di strage e martirio, mettendoci in gioco per comprendere e a nostro modo rivivere quei fatti. Siamo stati nel cimitero di Casaglia, dove 130 persone – bambini, donne anziani – , vennero mitragliate dai reparti SS, da giovani soldati con un mitra. Abbiamo taciuto di fronte alla tomba di Dossetti, che proprio all’indomani di quei fatti decise di dedicare la propria esistenza alla pace, facendo sì che nell’articolo 11 della Costituzione entrasse quello stupendo verbo: «ripudia» . L’Italia ripudia la guerra.
Forse , pensando a quel testo, a quel progetto di civiltà, dovremmo continuare a dire forte: la nostra umana convivenza democratica ripudia la guerra. Occorre capirlo, volerlo, con l’ottimismo della volontà, pur nel pessimismo della ragione, continuando ogni giorno, senza illusioni, a cercare la pace e la giustizia nelle nostre piccole e particolari vite quotidiane.
Occorre accettare il coraggio di queste parole, ma anche sopportare talvolta il silenzio e l’incapacità di comprendere che la storia in atto ci impone.