Io sono una madre disabile. No, non fraintendetemi, su: ci vedo, ci sento, parlo (pure troppo), e cammino con le mie gambe. Ma sono disabile, così come lo è qualsiasi genitore che si ritrova a spingere su ruote la prole, cosi come qualsiasi donna con trolley e un bimbo che appena sgambetta, così come qualsiasi anziano con bastone. Avete mai provato a prendere un treno regionale con un passeggino, due figli e un pancione? Io si, quando aspettavo la mia terza creatura, e credetemi non è stata una bella esperienza: impossibile scendere in tempo a meno di non affidarsi all’aiuto di qualche estraneo che faccia superare gli ostacoli…
Io sono disabile e non sapevo di esserlo, e soprattutto non sapevo che esiste un modo per consentire a tutti ma proprio a tutti di non sentirsi così. Per consentire anche a chi ha disabilità più gravi il non sentirsi limitati. Si chiama accessibilità. E c’entra con il progettare, con il costruire, con l’arredare.
Ma per scoprirlo, come quasi la totalità delle cose importanti che si scoprono nella vita, avrei dovuto incontrare qualcuno speciale.
E così è stato.
Questa è la storia di una ingegnera idealista e fissata con il sostenibile, che una mattina del 2013 rimane letteralmente folgorata da un intervento alla “famosa” Leopolda a Firenze.
Sale sul palco un uomo dall’accento spiccatamente emiliano, il foglio con il suo intervento stampato tra le mani (ma solo per sicurezza perché in realtà ha parlato i suoi 7 minuti senza mai guardarlo, e se lo conosco bene, adesso aggiungerei anche stravolgendo il testo che si era preparato per iscritto).
Ah già. Quest’uomo è seduto su una carrozzina. Ma questa è una delle ultime cose che colpisce in lui, vi assicuro.
Parla di “accessibilità trasparente“.
A questo punto, come in ogni narrazione che si rispetti, il flashback si impone.
Facciamo dunque un salto all’indietro di poco più di una trentina d’anni: Roberto è un ragazzino ferrarese di 15 anni, che come ogni ragazzino vispo vive quasi in simbiosi con il suo motorino. Fino al momento dell’incidente che lo manda in ospedale con una rottura spinale per la quale allora si veniva immobilizzati, e dunque paralizzati (oggi no, si può camminare di nuovo dopo un incidente così). Roberto invece passa cinque anni in ospedale e ne esce in sedia a rotelle, cambiato. Lui. Esiste una categoria di persone definirei solo con un termine: guerrieri. Guerrieri della vita, per i quali le circostanze anziché essere obiezione e fonte di lamento sono spinte propulsive, vere e proprie opportunità.
Roberto ha coniato un motto che sintetizza il suo agire: “Le persone disabili che fanno turismo sono turisti”. E gira il mondo col suo marchio di qualità per l’accessibilità delle strutture turistiche, Villageforall®.
Ancora non cogliete bene il nesso, vero?
Se vi parlo di “camera accessibile” o “bagno per disabili” io lo so che cosa visualizzate: un ambiente poco più che da ospedale. “A norma”. Ma a norma può bastare? Una camera di ospedale può far sentire una persona davvero in vacanza? Può la struttura ricettiva trarne un beneficio per i suoi clienti?
Ancora non ci siamo eh? Allora snoccioliamo due numeri: Secondo le rilevazioni di Doxa (anno 2015), il 16,4% delle famiglie italiane, ovvero 4,6 milioni di famiglie (che significa 10 milioni di persone), dichiara di avere bisogni particolari in vacanza. Bisogni spesso insoddisfatti o non completamente esauditi da chi si occupa di fornire risposta a queste esigenze.
Se si pensa che da soli, questi turisti con esigenze speciali, porterebbero un impatto economico diretto sul Pil di 11,7 miliardi di Euro, e una spesa indiretta (indotto incluso) di 27,8 miliardi, le carenze evidenziate sembrano ancora più inaccettabili. In altre parole: c’è un’intera fetta di mercato che aspetta di essere soddisfatta.
Si tratta di un target che si muove più volte all’anno, preferibilmente in bassa stagione e con un altissimo tasso di fidelizzazione (il 61% sono repeaters).
Ad essere interessati sono non solo persone con disabilità, ma anche famiglie numerose, con anziani, persone con intolleranze alimentari o difficoltà sensoriali o fisiche più o meno gravi, più o meno permanenti. [fonte V4A]
Facile dire “Eliminiamo le barriere architettoniche“… Un po’ come quella reginetta di bellezza che, sul podio con gli occhi neri di mascara colato nel suo pianto liberatore se ne esce con l’espressione “mi batterò per la pace nel mondo”.
Non sono le barriere architettoniche che devono essere eliminate (quelle non ci dovrebbero essere dall’inizio!). Sono piuttosto la stupidità e l’ignoranza.
Il fatto è che tutto si impara per un incontro con qualcuno che ci ha “conquistato”, altrimenti rimane teoria, e io ho imparato che l’accessibilità può essere un fenomenale driver per la ripresa dell’edilizia mangiando la salama da sugo ferrarese (non sfidate Vitali sull’enogastronomia, a meno di non essere davvero ma davvero preparati!).
Perché il punto è esattamente nella salama da sugo: quando te la portano pensi “tutto qui?” Poi ti sipianta in corpo e ti serve tutta la fabbrica della Coca Cola e del digerseltz per arrivare all’indomani in qualche maniera. Ecco, l’accessibilità per la progettazione è esattamente come la cola cola per la salama da sugo: non avresti mai pensato di averne bisogno prima di provarla e dopo averla mangiata. Ma dopo ti chiedi “come avrei mai potuto pensare di fare bene senza?” Così, un edificio progettato già accessibile permette ai suoi utilizzatori di non doversi neanche sentire “non abili” a fare una cosa, come superare un dislivello o andare in bagno. Costruire accessibile si può ed è possibile anche per i target di mercato più elevati, senza che la foto dell’ambiente faccia pensare ad un ospedale o ad una clinica.
È il caso di “Suite for all”, camera di albergo di lusso totalmente accessibile progettata e prototipata interamente a quattro mani da Roberto Vitali e dall’archistar Simone Micheli (prossimamente vi parlerò a anche di lui, dato che i nostri si sono ritrovati proprio ad una delle mie riunioni…)
Sfido chiunque a guardare la foto in alto del post e a pensare all’accessibilità a cui siamo solitamente abituati… A norma? Si. Anzi, oltre la norma: la qualità reale, quella che non solo fa dire “bello” ma che facilita la vita agli utenti… regalando loro maggiore abilità.
Ad maiora.
C’è una cosa sola al mondo che non dovete mai dimenticarvi di fare. Se dimenticate tutto il resto, ma non questo, non c’è da preoccuparsi; se invece ricordate tutto ma dimenticate questo, allora non avete fatto niente nella vostra vita.
E’ come se un re vi avesse mandato in qualche paese a eseguire un compito, e voi faceste mille altri servizi, ma non quello che vi ha mandato a compiere. Dunque gli esseri umani vengono al mondo per realizzare una particolare opera.Quell’opera è lo scopo, ciascuno specifico per ogni persona. Se non la compi è come se una spada indiana di valore incalcolabile venisse usata per affettare carne putrefatta.»
(Jalal ‘uddin RUMI)