Che la Turchia abbia svolto un ruolo troppo ambiguo in Siria e Iraq non c’era bisogno che venisse spiegato dai generali russi. E la rabbia di Mosca non fa che testimoniare come alcune potenze (Usa, Russia, Turchia, Arabia Saudita e Iran) stiano giocando con lo Stato Islamico per i propri interessi geopolitici. Al contrario, l’Europa continua ad essere orfana di una politica estera vera e comune, divisa come sempre in tante vecchie nazioni, spaventate dal pericolo terrorista e spettatrici immobili di come giovani disagiati cresciuti nelle periferie delle città europee facciano presto a trasformarsi da ladruncoli o piccoli bulletti di quartiere in martiri della fede.
In questi ultimi mesi però è emerso con forza il ruolo ambiguo di due paesi fino a oggi strategici amici, sia nella geopolitica mediorientale sia per l’economia europea: Turchia e Arabia Saudita.
Il primo teoricamente gradirebbe entrare nell’Unione Europea ed è nostro partner all’interno della NATO. Il traffico di combustibile è solo una delle cause di questo giudizio di ambiguità ormai trasversale da Mosca a Parigi. Si potrebbe ricordare come i curdi siriani da mesi abbiano presentato prove fotografiche su rifornimenti di armi ai gruppi estremisti in SIRAQ, al fine di indebolire ancora di più il traballante regime di Assad e il sogno dei curdi di creare uno stato (che di fatto già esiste nel nord tra Siria e Iraq). Per non parlare del sostegno al secondo governo oggi presente in Libia, quello con sede a Tripoli. Che vi sia un legame tra il capo militare di quel governo, Ablelhakim Belhadj e il governo turco è dimostrato da incontri, foto, voli aerei da Tripoli a Ankara. Un sostegno politico e militare che ha di fatto segnato lo spacchettamento della Libia, ormai divisa in due, se non tre parti se consideriamo il deserto del sud, e con due differenti parlamenti. Quello di Tobruk, protetto e appoggiato dall’Egitto e quello di Tripoli, filo islamista, sostenuto dalla Turchia del nuovo Sultano Erdogan.
Ancora dunque un ruolo ambiguo che fa il paio con quello ricoperto dall’altro stato, l’Arabia Saudita, alleata energetica (sempre meno per la verità) dell’occidente e governata da una monarchia assolutista da cui negli ultimi 40 anni sono partiti flussi economici impressionanti che hanno finanziato la più becera e settaria versione dell’islam, quella wahabita, di cui la famiglia regnante è testimone. Una componente radicale del mondo islamico che in meno di 40 anni ha imbevuto una parte di fedeli dal Marocco al Pakistan grazie a scuole coraniche, finanziamenti a finte associazioni e enti assistenziali, che in paesi in via di sviluppo fanno la differenza, da lasciar a bocca aperta. Una monarchia che farebbe rimpiangere persino quelle assolutiste del XVIII secolo. Tra i tanti casi che hanno colpito negli ultimi mesi l’opininone pubblica mondiale su questo stato retrogrado e medioevale c’è la condanna alla crocifissione di un giovane ragazzo che nel 2012, a 17 anni, aveva protestato durante una manifestazione contro il governo saudita. E poi apostasia, blasfemia, pene esemplari da far stringere lo stomaco e un’ignoranza culturale di fondo che ricorda quella dell’Italia precomunale (secolo XI) sono solo alcune delle distorsioni che hanno preso a pretesto uomini, che di religioso non hanno niente, per legittimare il proprio ceto, l’egemonia economica e il proprio potere politico.
A questo punto è più che legittimo porsi degli interrogativi sui nostri “amici”. Per primo, quanto sia giusto continuare ad avere rapporti di dipendenza con paesi, o governi, così poco trasparenti. Secondo se sia il caso di dire che lo stato islamico o una forma di governo basata su quei principi già oggi esista (in Arabia Saudita). E infine, quanti in Europa sarebbero disponibili ad affrontare probabili crisi economiche di sistema pur di provare ad emanciparsi da questi governi “amici” che poi tanto amici non sono?