PalomarLavoratori “fuori classe”

Il lavoro: un tema sensibile Il lavoro è una dimensione fondamentale e sensibile nello stesso tempo. È fondamentale per un insieme di motivi. Sul piano sociale e della coesione, perché su di esso ...

Il lavoro: un tema sensibile

Il lavoro è una dimensione fondamentale e sensibile nello stesso tempo. È fondamentale per un insieme di motivi. Sul piano sociale e della coesione, perché su di esso si fonda la nostra convivenza civile e la strutturazione dello Stato. Non a caso, il lavoro è inserito nel primo articolo della nostra Costituzione, a identificare esattamente nel Lavoro (con la L maiuscola) la colonna vertebrale attorno cui si costruisce la nostra società, da cui derivano i nostri diritti di cittadinanza, il sistema di welfare e così via. È fondamentale sul piano soggettivo, perché – nonostante tutte le trasformazioni – grazie a esso ci identifichiamo e siamo riconosciuti dagli altri per ciò che facciamo: contribuisce a definire la nostra identità, le nostre relazioni sociali e il nostro status. Nello stesso tempo, e proprio per i motivi appena ricordati, è una dimensione sensibile, da maneggiare con attenzione. E non solo a causa della crisi che in questi anni ha flagellato il mercato del lavoro generando una quota di disoccupati, soprattutto fra le giovani generazioni, di assoluto rilievo. Facendo divenire il tema del lavoro un argomento sensibile agli occhi della pubblica opinione, dei mondi associativi e della rappresentanza, oltre che della politica. Soprattutto perché, le regole e i meccanismi che governano il mercato del lavoro sono stati a più riprese rivisitati (dal cosiddetto “Pacchetto Treu”, alla riforma del compianto Biagi, fino all’ultimo Jobs Act del governo Renzi) nella necessaria ottica di una maggiore flessibilità e fluidità, senza che parimenti si sia messo mano a una riforma degli ammortizzatori sociali e al sistema di formazione continua. Ovvero, a quegli strumenti e iniziative che rendono più fluente la mobilità sul mercato del lavoro e più sostenute le persone che si trovano momentaneamente in assenza di un’occupazione.

Riformare il lavoro: e gli ammortizzatori sociali?

Questo disallineamento nei processi di riforma scarica in misura crescente sulle aziende e sulle famiglie l’onere e i costi di un mercato del lavoro frammentato e disarticolato. Basti pensare che l’intermediazione fra domanda e offerta di lavoro è realizzata solo per il 4% circa (Eurostat, 2014) dai Centri per l’Impiego pubblici (CPI). Per il resto, funziona il passa parola, la ricerca autonoma mediante le conoscenze familiari o le raccomandazioni. Una quota pari al 6% delle persone in condizione attiva (25-64 anni) partecipa a un percorso di formazione o di riqualificazione, mentre la media europea si assesta al 10,5% (Istat, Eurostat, 2013), scontando l’assenza di un sistema di formazione continua che porti i lavoratori a un aggiornamento delle proprie competenze professionali. Se a tutto ciò aggiungiamo che sui temi del lavoro e delle sue trasformazioni tende a prevalere una visione spesso ideologica, ancorata a visioni e a condizioni dell’epoca fordista, in cui i “diritti” rimangono quasi cristallizzati e non vengono declinati con i mutamenti organizzativi e culturali intervenuti negli ultimi decenni; dove l’idea di “occupabilità” con le sue necessarie coniugazioni fatica a concretizzarsi; e dove la riflessione sulle trasformazioni culturali legate al lavoro sono rimaste ancorate all’idea di “classe” dei lavoratori, facendo diventare il lavoro un’ideologia; allora possiamo comprendere i motivi che fanno diventare divisivi, quasi laceranti, i tentativi di modificare le regole e i meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro nel nostro Paese. Al punto da consumare le vite di studiosi, come Tarantelli, D’Antona, Biagi, oltre che di sindacalisti e lavoratori, che negli anni hanno riflettuto e contribuito a modificare il lavoro in Italia.

I lavoratori sono “fuori classe”

Dunque, il rischio è che, quando si guarda ai temi del lavoro, si venga assaliti dalla sindrome dello strabismo: incapaci di mettere realmente a fuoco i fenomeni. Facendo così prevalere gli stereotipi, il già noto. Ma in questo modo si perde la capacità di analizzare concretamente i fenomeni. In questo senso, la ricerca realizzata da Community Media Research e promossa da Federmeccanica, ha scandagliato gli orientamenti dei lavoratori in Italia con l’obiettivo di realizzare un’osservazione continuativa sulle trasformazioni culturali legate al mondo del lavoro. Così, si è costruito un Monitor sul Lavoro (MOL) che periodicamente realizzerà rilevazioni sui lavoratori in Italia. Dalla prima rilevazione scaturisce un quadro generale che narra di profonde trasformazioni intervenute all’interno del mondo del lavoro, soprattutto nei riferimenti di valore, che poi si traducono negli orientamenti e nei comportamenti. Si potrebbe affermare che siamo passati dalla “classe dei lavoratori”, a “lavoratori fuori classe”. E, in particolare, fra gli occupati nell’industria metalmeccanica questa definizione appare particolarmente azzeccata. Dalla mitica “classe operaia”, transitiamo a lavoratori caratterizzati da una forte soggettività che non si riconoscono più in una “classe” omogenea. Il cui livello di identificazione con il proprio lavoro e l’azienda in cui sono inseriti è ben più elevato di quanto non si potesse ritenere. Dove la progressione di carriera si fonda sul proprio impegno personale e la possibilità di investire nella formazione professionale. E deve prevalere il merito quale criterio di giustizia sociale sul lavoro, sicuramente non criteri indistintamente egualitari. In cui la disponibilità persino a investire economicamente i propri risparmi nell’impresa per realizzare innovazioni nei prodotti, ricevendone in cambio un ritorno economico, coinvolge la maggioranza degli interpellati. In definitiva, i lavoratori percepiscono l’impresa in cui sono occupati un po’ come la loro seconda casa, dove sviluppano relazioni sociali, amicizie, identificazione. Per questi motivi tendono a condividerne gli obiettivi, i destini: vorrebbero poter partecipare anche alle decisioni aziendali, ne sottolineano la qualità oltre la mera dimensione economica. Perché un’impresa è soprattutto un valore sociale, per sé e per il territorio. In questo senso, i lavoratori si presentano “oltre” la classe, sono post-ideologici. E, in qualche modo, sono dei “fuoriclasse”, ovvero primeggiano in professionalità, eccellenza, (auto)coinvolgimento.

Narrare i lavori

All’interno di un simile quadro, è opportuno sottolineare un aspetto problematico emerso dalla ricerca: il prestigio sociale attribuito alle diverse professioni. Le mansioni manuali (come operaio, contadino) sono collocate al fondo di una classifica ideale delle figure professionali, dove peraltro primeggia il dirigente/manager sull’imprenditore. L’idea di lavorare in un’industria si colloca fra i luoghi di lavoro meno ambiti, ad eccezione proprio dei lavoratori metalmeccanici. In altri termini, viene confermata l’idea che il lavoro manuale e la fabbrica si vedano attribuite una connotazione negativa nell’immaginario collettivo degli stessi lavoratori: insiste una perdita di valore sociale assegnato a questi due aspetti. Perché la mansione operaia e il lavorare in fabbrica sono diventati sinonimi di dequalificazione, serialità, impersonalità, sporcizia, scarsa remunerazione. Con l’eccezione, però, di chi quella professione la svolge e ci vive. Quindi, se la conosci, l’apprezzi. Qui si pone un problema di comunicazione. Imprese che oggi sono formate in grande prevalenza da diplomati, da figure professionali specializzate e da tecnici: ma sono prive di una rappresentazione realistica di ciò che effettivamente sono. Di costruire cioè un’immagine di questi lavori e dei luoghi di produzione più aderenti alla realtà, in cui sia possibile far comprendere le trasformazioni avvenute. Sotto questo profilo, l’industria non ha narrato com’è cambiata. Mentre solo 30 anni fa, lavorare in fabbrica e fare l’operaio era, per molti versi, un vanto, un’ambizione: uno status sociale. Al punto che la stessa contrattazione nazionale delle diverse categorie era conseguente a quanto veniva deciso nel settore della metalmeccanica. Per tornare ad avere un prestigio sociale adeguato, è necessario raccontare la metamorfosi intervenuta nell’industria.

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