Alla fine il processo di impeachment di Dilma Rousseff, rieletta alla testa del Brasile solo un anno fa, è arrivato, ma non nel modo in cui i fautori dell’onda moralizzatrice che pare essersi impadronita del gigante sudamericano avrebbero sperato.
L’apertura del processo di impeachment è infatti il frutto avvelenato di quella politica che pare aver inchiodato il paese ad assistere impotente al “terzo turno” elettorale. Così i giornali hanno ribattezzato la sterile conflittualità tra una coalizione di governo uscita vincente di misura l’anno scorso – e quindi troppo debole per adottare le misure drastiche che il momento richiederebbe – e un’opposizione speranzosa di ribaltare grazie alla pressione dei media e dell’opinione pubblica delle principali città il risultato delle urne, senza curarsi di avanzare proposte programmatiche alternative a quelle di Dilma. Il tutto mentre il paese, alle prese con la più grave crisi economica degli ultimi 25 anni, assiste sempre più disilluso.
Su tutto questo ha potuto giocare Eduardo Cunha, il presidente della Camera, gravemente coinvolto nello scandalo Lava Jato (i documenti attestanti i suoi conti segreti in Svizzera sono stati pubblicati su tutti i giornali), che vede nel suo potere di interdizione al governo (e dunque di indispensabile spalla di un’opposizione senza leader) l’unica ancora di salvezza. Cunha, evangelico, espressione della destra religiosa, è un’esponente del PMDB che esprime un’ampia varietà di posizioni politiche.
Cunha si è deciso ad accogliere la richiesta di avvio del processo di impeachment quando sembrava imminente l’avvio del processo di cassazione del suo mandato parlamentare da parte della Commissione di Etica della Camera, una mossa chiaramente ritorsiva, già denunciata come tale dagli esponenti del Partido dos Trabalhadores di Dilma Rousseff e del suo padrino Lula, l’ex sindacalista che l’ha preceduta alla presidenza.
Allo stesso partito di Cunha appartengono anche alcuni alleati vitali per la continuità del governo, il vicepresidente Michel Temer e il presidente del Senato Renan Calheiros, che pure periodicamente non mancano di inviare segnali destabilizzanti verso il Planalto, la residenza presidenziale simbolo del Brasile repubblicano.
Paradossalmente, l’avvio del processo può essere un bene per il Brasile, chiamando il suo sistema politico a mettere fine alle fibrillazioni che l’agitano da quasi tre anni, da quando un’inedita onda di proteste percorse il paese in occasione della Confederations’ Cup.
Dilma ha immediatamente reagito alla notizia con un’apparizione video: “non possiedo conti all’estero, mai ho concusso o tentato di corrompere nessuno, non ho mai beneficiato impropriamente di denaro pubblico”, ha affermato fremente di rabbia davanti alle telecamere, con allusioni esplicite alle accuse mosse dalla Procura Federale a Cunha. Ora però deve dimostrare che oltre a essere onesta, ha le capacità e la forza di rimettere il Brasile sui binari della crescita. Diversamente, potrebbe essere proprio il suo partito ad accelerarne la caduta, con un occhio alle presidenziali 2018 e al ritorno di Lula.