#InnovazioniStartup Parcheggio per giovani

Nei giorni scorsi il CENSIS ha disegnato una situazione preoccupante per l’Italia. Ma il CENSIS accanto a numerose tinte fosche che dovrebbero far riflettere sulla strada che abbiamo ormai scelto ...

Nei giorni scorsi il CENSIS ha disegnato una situazione preoccupante per l’Italia.

Ma il CENSIS accanto a numerose tinte fosche che dovrebbero far riflettere sulla strada che abbiamo ormai scelto da molti anni per il nostro futuro, compare un ottimismo sui giovani che in molti casi si danno all’impresa.

Il CENSIS ci dice che sono aumentati i giovani che vogliono fare impresa, che tentano la strada delle startup. Ma quali sono i settori delle startup italiane? Il settore più importante è la ristorazione e la recettività.

Dal 2009 ad oggi circa i 20% in più di imprese di giovani sotto i 30 anni, mentre l’Italia risulta essere tra i paesi europei con i giovani che maggiormente hanno intenzione di aprire una attività.

Tra i settori maggiormente in crescita abbiamo il settore ristorazione e ricettività (22,6%); Servizi di supporto alle imprese, viaggi e noleggi (41%), sanità e assistenza sociale (9,4%).

Ad ottobre un’altra ricerca del CENSIS aveva applaudito ai millenians (18-34 anni) per la loro capacità di lavorare e voglie di fare impresa.

Anche da parte del CENSIS si sente un po’ quella retorica della startup che tanto abbiamo visto in questi ultimi anni.

Le startup sono diventate un moderno parcheggio per giovani formati e competenti che non riescono ad essere assunti da un mercato del lavoro asfittico basato su una specializzazione produttiva della nostra industria da paese sottosviluppato.

I governi hanno perso la sfida di ricostruire il nostro paese dopo decenni di decadenza e quasi nove di crisi, hanno lasciato da una parte che il nostro sistema industriale si svendesse verso l’estero e si rinchiudesse su prodotti a bassa specializzazione produttiva. Hanno anche progressivamente disinvestito nella formazione a partire dalla scuola a tutti i livelli per non parlare dell’università o la ricerca.

Ormai il mito delle startup si sta dimostrando il farmaco placebo per alleviare il malato terminale. Negli anni ’80 l’Università ha cominciato ad assumere la funzione di parcheggio per disoccupati. Un Paese che agli inizi degli anni ’80 non aveva smaltito la crisi degli anni ’70 e che ripartiva grazie alla “terza italia” delle piccole imprese del nord-est. Un modello di imprese che non avevano bisogno di giovani scolarizzati e così chi studiava preferiva continuare all’università e rimanere fuoricorso in attesa di trovare uno sbocco di lavoro. Sono gli anni della grande spesa pubblica e delle tangenti, un sistema drogato che aveva fatto parlare di boom economico.

Gli anni ’90 sono stati segnati dalla crisi dei loro inizi, da mani pulite e del risanamento per entrare nei parametri di maastricht, un sistema industriale fatto dal pubblico che indebitandosi, attraverso la svalutazione della lira e l’evasione fiscale consentiva al sistema delle imprese di poter vivacchiare malgrado fosse evidente che le cose non potevano andare.

Anche in quegli anni i giovani parcheggiavano all’università e cominciavano a fare master e erasmus, il parcheggio si allungava anche se dopo qualche tempo qualcosa si trovava. Il gap tra studi fatti e occupazione trovata continuava ad aumentare mentre la retorica in campo era quella della globalizzazione e delle borse gonfiate dalla internet economy.

L’11 settembre e la crisi della new economy hanno dato una battuta di arresto mentre i giovani cominciavano progressivamente a peggiorare la loro situazione, a perdersi nel precariato. Fino ad arrivare ala grande crisi che ancora subiamo.

La politica italiana ha così preferito dire ai giovani di diventare imprenditori, di fare startup. La politica si libera così del problema di dover costruire il futuro del paese e si mette la coscienza a posto magari utilizzando anche l’innovazione per foraggiare le lobbies.

Le startup sono diventate un parcheggio per giovani, un kindergarden costoso e inefficiente ma che si presenta bene. Gli abbiamo fatto capire che devono studiare, devono fare l’erasmus e imparare più di due lingue straniere benissimo, devono fare due master (di I e II livello) e poi, non sapendo come farli lavorare, gli diciamo fatti il lavoro da solo.

Mettiamo giovani preparati nei loro ambiti di specializzazione a fare gli imprenditori, come se chiunque lo possa fare. Gli mettiamo in mano qualcosa e li lasciamo pascolare per qualche tempo in un incubatore, in una fablab, in un coworking. Basta che si tolgano di torno e che non gli venga in testa di protestare e lamentarsi. D’altra parte questo è il paese in cui per guidare una auto ti chiedono di prendere la patente, rinnovarla ogni cinque anni e revisionare la tua auto nuova dopo tre anni e non chiede a chi apre una impresa un minimo di competenza manageriale. Così accade che il nostro sistema industriale viene spazzato via da una crisi che cambia le carte in gioco, molti imprenditori si sono trovati di fronte un mercato cambiato e non hanno saputo reagire. Non avevano strumenti diversi, questo è accaduto con le piccole imprese (un grande danno per il nostro sistema diciamolo ogni tanto) e per le grandi imprese familiari che hanno venduto agli stranieri.

Le startup trovano un mercato asfittico, senza fiducia e senza domanda. Un mercato fatto da imprenditori tra i meno scolarizzati d’Europa (come afferma una ricerca di Almalaurea) e dunque incapaci di apprezzare servizi basati sulla conoscenza e una pubblica amministrazione condizionata spesso da lobbies che controllano commesse e gare per dirigerle verso gli amici.

In questi ultimi anni poi il mito delle startup è diventata una moderna corsa all’oro dove vincono solo i padroni dei saloon. Lo stato da soldi alle startup attraverso una esplosione di incubatori, non è mai chiaro quanti soldi vengono utilizzati dall’incubatore per le sue spese interne e quanti vanno ai giovani. Incubatori spesso gestiti da imprenditori che si sono arricchiti negli anni del boom della net economy e hanno venduto la loro azienda. Essere imprenditori è stata per loro una fortuna trovarsi nel posto giusto e nel momento giusto, poter vendere e diventare ricchi approfittando del momento. Spesso vanno a parlare nei convegni invitando i giovani a rischiare dopo aver investito gran parte dei loro guadagni nel settore immobiliare e nella rendita.

Con questa mentalità il nostro sistema economico diventa una grande sala di gioco d’azzardo, si punta sulla startup che può “fare il botto” e se lo fa si vende e si brinda. Startup che non possono che essere vendute all’estero visto che non abbiamo un sistema industriale in grado di raccogliere sfide di nessun tipo.

Se fino a qualche tempo fa preparavamo studenti in gamba che sono costretti ad andare all’estero per lavorare, ora finanziamo il pacchetto completo: persone in gamba e ottime idee imprenditoriali. Lo stato finanza aziende multinazionali che sono le uniche in grado di trasformare buone idee in prodotti, marketing, organizzazione interna, gestione dei fornitori e del personale, ecc. ecc. Quello che la scienza del management ha sviluppato in più di cento anni di capitalismo avanzato e che, con i dovuti cambiamenti, manda avanti il mondo anche ora.

Con questo non voglio dire che le startup, i fablab e quant’altro non serve. Serve ed è utile solo se intorno non ha un deserto e serve se è complementare ad investimenti interni da parte delle aziende, ad una spesa in ricerca e sviluppo da parte dele aziende private che ora è inesistente.

Troviamo startup che vendono pizza online o il bed&breakfast insieme a quelle che mettono insieme ricerca e competenza.

Avremmo bisogno almeno di alcune aziende grandi e solide che coltivassero internamente le idee, investissero nei giovani e mettessero queste idee insieme all’esperienza e ad una moderna organizzazione manageriale.

La Programma 101 della Olivetti, che tanto è tornata di moda nella narrazione dell’innovazione, è partita da una buona idea e da persone eccellenti ma interno aveva una multinazionale italiana che investiva in marketing, comunicazione, commercializzazione ed aveva uno dei più moderni modelli organizzativi di gestione manageriale al mondo.

Prendiamo atto che inn Italia non abbiamo più aziende come la Olivetti e aziende in grado di far crescere prodotti e cogliere la sfida del mercato costrunedo posti di lavoro e benessere.

E’ il caso più eclatante di “fallimento di mercato” della nostra storia ma non vediamo nessuno invocare l’intervento dello Stato che pure è il motore che ha fatto nascere il capitalismo europeo e lo ha fatto diventare leader mondiale.

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