Il grillo parlanteLa bomba dei salari a Roma e il paradosso della riforma

E se rinunciassimo definitivamente all’idea di “riformare” un’amministrazione pubblica italiana chesembra opporvi una resistenza che – nel caso dei dipendenti del comune di Roma – arriva al punto d...

E se rinunciassimo definitivamente all’idea di “riformare” un’amministrazione pubblica italiana chesembra opporvi una resistenza che – nel caso dei dipendenti del comune di Roma – arriva al punto di preferire al cambiamento quello che assomiglia ad un suicidio? E se provassimo, seriamente, a riflettere sui motivi per i quali –dopo venticinque anni di battaglie titaniche – torniamo sempre alla casella iniziale nel gioco dell’oca che ha come traguardo quello mitico della valutazione della produttività dei dipendenti pubblici? Ora che un Governo assai diverso sta per ingaggiare la sua battaglia campale sul fronte della dirigenza pubblica e che i nodi stanno venendo drammaticamente al pettine, è arrivato, forse, il momento di cambiaremetodo, protagonisti, semantiche. Il momento di sostituire l’idea stessa di una “riforma” complessiva da imporre con una legge dello statocon quella di un progetto – più modesto e concreto – di trasformazione organizzativa che dia autonomia ed incentivi alle amministrazioni capaci di cominciare e diventare un esempio per le altre.

La vicenda del “salario accessorio” al Comune di Roma rischia di mettere in seria difficoltà ventitremila famiglie e di far piovere uno sciopero devastante sul bagnato di una città che si sta letteralmente sgretolando. Mentre stenta a partire una campagna elettorale che nessuno sembra voler vincere.

Non meno rilevante è, però, la circostanza che i dipendenti del comune di Roma rischiano di perdere una quota non piccola di uno stipendio non lauto (e, in teoria, di doverla restituire sugli importi già riscossi) per aver rifiutato – con un referendum di qualche mese fa – un accordo tra Giunta e sindacati che avrebbe, timidamente, legato ad un qualche elemento di produttività, il salario “accessorio” che per anni è stato distribuito come se fosse fisso. Come argomentava Oscar Giannino su queste colonne ieri, è evidente che non è accettabile immaginare di risolvere il problema con un’ennesima proroga: occorre un intervento definitivo che riporti alla legalità ciò che oggi vive in un’incertezza creata da leggi contraddittorie e gli abusi che vi si annidano regolarmente.

Ma ancora più preoccupante è il fatto che la finzione dei salari accessori sia questione molto più estesa e sistematica: riguarda altri enti locali, le aziende municipalizzate e gli stessi ministeri; non solo gli impiegati ma gli stessi dirigenti. Essa si fonda, non solo, sul rifiuto strisciante che buona parte dell’amministrazione pubblica oppone a qualsiasi tentativo di differenziarecarriere, retribuzioni, risorse assegnate a date istituzioni; ma anche sulla convinzione sbagliata che possa bastare uno dei “tavoli” che regolarmente le istituzioni convocano quando rischiano di essere travolte dall’emergenza, per dare alle amministrazioni competenze ed abitudini che non hanno.

Al Dipartimento Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio che, pure, è la struttura che deve guidare la modernizzazione dell’amministrazione pubblica italiana, le tabelle che – in maniera, ad onore del vero, trasparente – l’amministrazione produce, dicono che il 91% dei propri 150 dirigenti di seconda fascia riceve ogni anno lo stesso stipendio fino all’ultima cifra decimale (88.192,73 euro all’anno): ciò significa che sonoassolutamente fisse le voci della busta paga che la stessa tabella chiama “parte variabile”.

La realtà è che quasi tutte le amministrazioni italiane sono impreparate, nonché resistenti rispetto all’idea della differenziazione e che pretendere – come ha fatto il ministro Brunetta con la legge attualmente in vigore – di voler togliere fondi a chi la valutazione non la sa o può fare, significa innescare una bomba ad orologeria destinata ad esplodere in maniera, peraltro, casuale.

Che fare dunque? La proposta è quella di rinunciare all’idea – tanto ambiziosa da diventare velleitaria – di poter cambiare tutto dall’alto. Eliminando dalla storia sul cambiamento che si racconta agli elettori (e ai lavoratori pubblici) l’illusione che ci possa essere un momento – normalmente segnato da una votazione parlamentare – dopo il quale nulla più sarà come prima.

La riforma – se c’è – deve diventare un cantiere (anzi un insieme di cantieri) da portare a realizzazione per politica (cominciando magari da quelli dove è più facile mettersi d’accordo su cosa misurare, ad esempio scuola, turismo, sanità) e per ufficio (singole scuole, musei, ospedali che hanno voglia di fare da esploratori).Evitando di mettere insieme semantiche e obiettivi troppo diversi che, inesorabilmente, producono la complessità nella quale si sono persi tutti. Senza cadere nell’errore di chiedere a tutti sforzi organizzativi che non tutti si possono permettere (è assurdo chiedere la costruzione di sistemi di valutazione anche a Comuni di poche migliaia di abitanti che sarebbero inermi di fronte a ispezioni come quelle subite dal Comune di Roma). Premiando chi accetta la sfida (una possibilità potrebbe essere di dare un piccolo aumento di risorse – ma soprattutto quote crescenti di autonomia – per chi si impegna a rendere variabile una percentuale consistente di stipendi sulla base di meccanismi di valutazione verificabili) e costruendo meccanismi in grado di incoraggiare il trasferimento di ciò che ha dimostrato di funzionare.

Gli indicatori su cui valutare le prestazioni devono essere pochi (quelli che misurano le competenze degli studenti nelle scuole, il numero di biglietti per i musei, il tasso di successo per determinate cure)comprensibili e controllabili dagli stessi cittadini per usarne come forza la domanda di servizi migliori. Di essi devono rispondere i dirigenti (ed è sui dirigenti che si sta focalizzando il Ministro Madia) lasciando a costoro la valutazione a valle dei propri dipendenti.

Il progresso, infine, della riforma va controllato e per farlo vanno benissimo le tavole che usa il Presidente del Consiglio, aggiungendovi tempi, responsabilità e traguardi intermedi.Il Dipartimento Funzione Pubblica va, probabilmente, rinnovato per diventare un modello di come si supera l’autoreferenzialità di cui l’amministrazione pubblica soffre e vi deve essere totalmente dedicato: aisuoi dirigenti andrebbero assegnati compiti di riforma specifici al cui conseguimento dovranno seguire progressioni di carriera e remunerazioni che non potranno che essere molto più differenziate.

SI fa presto a dire riforma. In realtà essa è un cantiere che richiede grandissime doti di leadership, tempi che sono, ovviamente, più lunghi di una legislatura. Visione sull’importanza della posta finale e pragmatismo di cominciare da risultati a breve che convincano tutti che il cambiamento conviene.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 11 Gennaio 2016

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter