Simone Moro ce l’ha fatta. È salito sul Nanga Parbat che, insieme al K2, era uno dei quattordici ottomila che ancora resisteva all’ascesa invernale. I tedeschi negli anni Trenta l’hanno chiamata “montagna del destino” ed è conosciuta anche come “mangiatrice di uomini”, un appellativo non certo tranquillizzante. Simone, tanto per capire il tipo, ne aveva conquistate – prima di questa – tre in prima assoluta: lo Shisha Pangma nel 2005, il Makalu nel 2009 e il Gasherbrum II nel 2011.
C’è una cosa che ha scritto l’alpinista bergamasco dopo l’impresa del 2005 e che testimonia il suo modo di intendere la montagna e le imprese in montagna. «Le parole (abusate) “avventura” ed “esplorazione” sono i cardini su cui ho basato il mio modo di vivere l’alpinismo (…) Questo è il vero motivo per cui amo le scalate invernali (…) perché sento che l’obiettivo sia la ricerca dell’ingrediente esplorativo e avventuroso, cioè la ricerca di ciò che mi ha fatto innamorare e mi ha reso felice».
Che è un po’ lo stesso concetto espresso tempo fa da Massimo Mila, grande intellettuale e alpinista, per il quale «la montagna è un signore che si serve in letizia. È quella particolare forma di conoscenza geografica che è l’esplorazione e non vale niente obiettare che ormai la Terra è conosciuta in ogni suo angolo, le montagne tutte scalate da ogni versante. Per quanto si sia pericolosamente assottigliato il filo che congiunge l’alpinismo all’esplorazione, rompersi non potrà mai, perché quella è la sua essenza».