Il doppio fronte per il governo di Dilma Rousseff
Lo scontro politico innescatosi in Brasile sulla nomina di Lula a ministro del governo di Dilma Rousseff ha destato scalpore in tutto il mondo, accendendo i riflettori sulla difficile situazione istituzionale del paese. Giustificato con la necessità di rafforzare un esecutivo che finora non ha saputo evitare il trascinarsi della peggiore crisi economica degli ultimi decenni, è stato visto dall’opposizione come una scappatoia dalle indagini giudiziarie che coinvolgono l’ex presidente. Ciò ha aperto un nuovo fronte politico-giudiziario per Dilma, già oggetto di un procedimento di impeachment per presunte irregolarità formali nella formazione del bilancio 2014 (“pedaladas fiscais”, pedalate fiscali nel gergo politico), commesse da tutti i suoi predecessori e mai in passato sanzionate, men che meno con la misura estrema dell’impeachment.
Cerchiamo di far luce su queste vicende, diverse eppure così intimamente intrecciate.
Le accuse a Lula
Lula è indagato dal Ministero Pubblico Federale di Curitiba nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, che ha messo in luce un gigantesco schema di tangenti a danno della Petrobras, il colosso petrolifero di stato. Secondo le accuse, ha ricevuto benefici da imprese coinvolte nello schema Petrobras, sotto forma di immobili e/o opere di ristrutturazione e arredamento sugli stessi (un appartamento in costruzione nella località balneare di Guaruja, un “sitio”, casa di campagna, a Atibaia, nei pressi di San Paolo) e contributi alle attività culturali della sua fondazione, l’Instituto Lula. Avrebbe inoltre occultato la proprietà dei due immobili, che effettivamente non sono a lui intestati. L’appartamento è ancora in capo alla società costruttrice, mentre la cascina è di proprietà di vecchi amici dell’ex presidente, che peraltro non ha mai negato di frequentarla assiduamente. Gli importi complessivi sono di circa un milione di euro per quanto riguarda gli immobili; di circa 5 milioni di euro per i contributi.
La difesa di Lula
Lula ha sempre controbattuto a tutte le accuse, pubblicando sul sito della sua fondazione i documenti che ne dimostrano l’infondatezza. Per quanto riguarda l’appartamento, ha confermato l’iniziale interesse all’acquisto sulla carta (che giustificherebbe così le visite al cantiere, sbandierate dall’accusa come la prova della effettiva proprietà), poi venuto meno in corso d’opera. Per il “sitio”, ha sempre affermato che gli è stato espressamente messo a disposizione, giustificando così la sua abituale presenza nei fine settimana. Quanto all’Instituto Lula, l’ex presidente ha documentato l’intensa attività da conferenziere svolta in tutto il mondo dal termine del suo mandato, rivendicando (non senza orgoglio, lui spesso deriso dagli avversari per la bassa scolarità e i non rari errori di portoghese) di essere il secondo più pagato al mondo, dopo Bill Clinton: “io chiedo 200.000 dollari, non uno di più, non uno di meno”, ha detto durante l’ormai famoso interrogatorio del 4 marzo. Le stesse imprese che finanziavano lui, finanziavano la fondazione del predecessore Fernando Henrique Cardoso, senza che nessuno gli abbia mai chiesto conto di nulla.
Non è certo questa la sede per pronunciarsi sulla fondatezza delle accuse, ma va detto che Lula al termine del suo secondo mandato, a fine 2010, aveva l’80% di popolarità, oltretutto secondo la rilevazione della Confindustria brasiliana non certo un’organizzazione amica. Con il Brasile intero nelle sue mani, appare singolare che – in uno schema di malaffare che secondo le stime avrebbe movimentato tra i 10 e i 40 miliardi di reais, tra i 2,5 e i 10 miliardi di euro – il leader del governo si sia dovuto accontentare delle briciole, oltretutto non in contanti ma sotto forma di cucine e armadi (ancorché di lusso) e opere di ristrutturazione. Le dazioni inoltre sarebbero avvenute quando Lula aveva terminato il secondo mandato, e dunque era un privato cittadino. Non aveva più alcun potere di compiere atti illeciti in favore delle imprese che lo avrebbero beneficiato, anzi non aveva più alcun potere, afferma la sua tesi difensiva.
Il ruolo del giudice Moro, la spettacolarizzazione dell’inchiesta e la campagna mediatica di Rede Globo e C.
I suoi legali contestano inoltre la competenza della Corte Federale di Curitiba, e del giudice Sergio Moro, il Di Pietro brasiliano (cui il brasiliano ha espressamente scritto di ispirarsi, benché egli sia un giudicante, a differenza del nostro, che era PM). La sola connessione, affermano, è che l’impresa accusata di illecite donazioni è a sua volta coinvolta nella Lava Jato. Ma allora, concludono, tutti gli illeciti che riguardano questa impresa (la Odebrecht, un colosso presente in tutto il Brasile e in numerosi paesi esteri) dovrebbero essere giudicati a Curitiba, il che sarebbe un assurdo giuridico.
Fatto sta che Sergio Moro è l’eroe brasiliano del momento, e Lula è il leader storico del Partido dos Trabalhadores, il partito al governo con Dilma Rousseff che tuttavia per molti brasiliani è solo la sua longa manus. Ciò ha consentito ai media contrari al governo (Globo su tutti) di montare una campagna mediatica sulle accuse di Lula che ha creato in seno alla società, soprattutto in quegli strati che avevano fatto una apertura di credito al PT e che con la crisi si sono sentiti traditi, una fortissima ostilità verso l’ex presidente e il suo partito. Anche le inchieste non appaiono del tutto imparziali, giacché fortissimi indizi contro membri di altri partiti (in primo luogo PSDB e PMDB) non appaiono interessare così tanto inquirenti e media, pur prodighi di attenzioni (e di continue fughe di notizie, va detto) verso Lula e i suoi.
Il fermo di Lula del 4 marzo, le manifestazioni pro-impeachment del 13 marzo, quelle a favore del governo del 18 marzo
Arriviamo così alla “condução coercitiva” del 4 marzo scorso. Quell’iniziativa (già singolare per l’ingente spiegamento di forze in assetto da guerra) è stata fortemente criticata da ampi strati della comunità giuridica brasiliana, ivi incluso un membro della Corte Suprema, Marco Aurelio de Mello, per la mancanza di presupposti, in primis il rifiuto a presentarsi spontaneamente (Lula era sempre comparso ogniqualvolta era stato chiamato). È parsa insomma più una iniziativa mediatica di magistrati in cerca di visibilità, come quelle che venivano criticate in Italia proprio negli anni di Mani Pulite, che una misura fondata e necessaria.
Ad essa ha poi fatto seguito la richiesta di arresto cautelare del PM statale di San Paolo, che è stata sì rigettata dal Giudice competente, ma ha reso evidente che (ci fosse un disegno o meno, dei fondamenti giuridici o no) l’arresto di Lula, simbolo di una lunghissima stagione della politica brasiliana era ormai nel novero delle cose possibili, un fatto che avrebbe inferto un colpo durissimo a un governo già in difficoltà. Ciò era inoltre indice – per fermarci al lato tecnico – di un evidente conflitto di competenza, non è possibile neanche per la legge brasiliana essere indagati per lo stesso fatto da due autorità diverse.
Per la cronaca, il PM che ha chiesto l’arresto aveva anticipato la sua decisione due mesi prima in un’intervista a Veja, rivista particolarmente dura contro il governo, una condotta anch’essa singolare per un rappresentante dell’accusa.
In tutto ciò, il 13 marzo erano convocate in tutto il Brasile manifestazioni pro-impeachment, che si sono rivelate essere la più grande mobilitazione popolare nella storia brasiliana. Ad esse ha risposto il fronte progressista, con manifestazioni meno massicce ma comunque capillarmente diffuse in tutto il Brasile, che hanno marcato anche una netta differenza: Lula è saldamente il leader del suo schieramento, ed è stato salutato con un’ovazione al suo apparire a San Paolo, nello stesso luogo in cui pochi giorni prima gli aspiranti leader pro-impeachment (Alckmin e Neves, del PSDB) erano stati fischiati e costretti ad abbandonare il corteo.
Lula e il foro esclusivo per i ministri
La decisione di nominare Lula ministro nasce in questo contesto di grave deterioramento della posizione del governo. A onore del vero, con l’entrata nell’esecutivo (il portafoglio affidatogli è quello della Casa Civil, il più importante, che ne fa il coordinatore dell’azione del governo e il raccordo tra questo e il parlamento), Lula non acquisisce l’immunità, ma vede trasferita la competenza a giudicarlo al Supremo Tribunal Federal, la Corte Suprema brasiliana. I suoi membri sono sì nominati in parte dalla politica, ma – più di ogni altro giudice in Brasile – in anni recenti essa ha dato prova di grande indipendenza, condannando a lunghe pene detentive esponenti di primo piano proprio del suo Partido dos Trabalhadores. Oltre a non dargli l’impunità la nomina riduce le garanzie di Lula, visto che contro le sentenze del STF non è prevista impugnazione.
In una situazione molto surriscaldata, tuttavia, questa spiegazione non è stata sufficiente. L’opinione pubblica contraria al governo ha gridato al golpe, spinta a ciò dalla narrativa dei principali mezzi di comunicazione, Rede Globo su tutti. A gettare benzina sul fuoco si è messo anche il giudice Moro, ormai conscio del suo status (che forse inizia a stargli stretto), che con una mossa molto spregiudicata e certamente illecita ha diffuso mercoledì 16 marzo (a poche ore dall’insediamento di Lula) una intercettazione (pacificamente illegale) con cui Dilma avvisava Lula che gli stava inviando l’atto di nomina, da usare “in caso di necessità”, subito sbandierata dall’opposizione come prova provata dall’ostruzione alla giustizia messa in campo dai due.
La sospensiva della nomina di Lula
In un clima ormai infuocato il Brasile ha vissuto ore di grande agitazione. Un giudice federale di Brasilia (che, detto per inciso, si è scoperto essere un fiero avversario del governo, verso cui sui social non risparmiava critiche e dileggi di ogni tipo) ha sospeso cautelarmente l’atto di nomina, affermando che esso sarebbe stato dettato dal solo scopo di sottrarre l’indagato al suo giudice naturale. La situazione ha creato grande impasse nella comunità giuridica brasiliana: Lula era già insediato o no? Se si, non era venuto meno la competenza del giudice federale? Non avrebbe dovuto pronunciarsi il Supremo Tribunal Federal? Gli interrogativi, venuti meno con il pronto annullamento della decisione ad opera della competente corte federale, si sono immediatamente ripresentati con l’adozione di una misura analoga da parte di un giudice federale di Rio de Janeiro. L’Avvocatura Generale dell’Unione ha proposto ricorso al Supremo Tribunal Federal, chiedendo che affermi la sua esclusiva competenza su quello che è un atto del presidente della repubblica. Nel ricorso, ha dato atto dell’esistenza di una ventina di altre richieste di sospensiva.
Poi la sospensiva della nomina (siamo al 18 marzo, lo stesso giorno della grande mobilitazione per la democrazia del fronte favorevole al governo) è venuta dal Supremo Tribunal Federal, ad un opera di un giudice, Gilmar Mendes, di orientamento conservatore e anzi ex militante del PSDB.
Infine, il 22 marzo – con una decisione di segno contrario a quella di Mendes – un altro membro della Corte Suprema ha stoppato le iniziative di Moro contro Lula, riconoscendo che il coinvolgimento di Dilma nelle intercettazioni ne fa materia per il STF, essendo coinvolte ragioni di sicurezza nazionale.
L’impeachment di Dilma
Arriviamo infine all’ultimo nodo dell’ingarbugliata situazione brasiliana, il procedimento di impeachment di Dilma che proprio il 16 marzo ha registrato un passo avanti importante, con la nomina della commissione dei 65 deputati incaricati dell’istruttoria (di cui, detto per inciso, 37 hanno pendenze varie con la giustizia). In proposito, la situazione è paradossale. Fino ad oggi il governo premeva perché si andasse avanti, convinto di avere la maggioranza necessaria per sbarrare rapidamente la strada al processo (che è un giudizio politico, dove conta avere i voti nel Congresso, più che le prove delle irregolarità). Chi frenava era il presidente della Camera Eduardo Cunha, fiero avversario di Dilma ed anzi primo artefice dell’impeachment, da utilizzare però solo per logorare la presidenta, nella consapevolezza di non avere i numeri per rimuoverla. Senonché la tattica attendista ha dato i suoi frutti, perché all’avvio della fase parlamentare il governo appare fortemente indebolito.
Ancorché oggi Dilma possa ancora contare su un certo margine di sicurezza (per la sua rimozione è necessario il voto dei 2/3 dei componenti di ciascuna camera), la sua base in parlamento appare sfaldarsi di giorno. È di ieri 30 marzo la decisione del PMDB (alleato del PT da 13 anni) di lasciare tutti gli incarichi di governo: o meglio, tutti meno quello di vice, occupato da Michel Temer, pronto a succedere a Dilma alla deposizione data ormai per scontata dal fronte avversario. E poco importa se per arrivare a tanto sarà necessario garantire l’impunità al citato Eduardo Cunha, i cui conti segreti in Svizzera (dove ha ricevuto oltre 10 milioni di dollari di tangenti) sono stati pubblicati a ottobre scorso da tutti i giornali brasiliani, e allearsi con Aécio Neves, candidato sconfitto nel 2014, pluricitato dai testimoni dell’inchiesta Lava Jato e con conti segreti in Lichtenstein.
Paradosso dei paradossi, la “crociata anti-corruzione” potrebbe concludersi con la deposizione di una presidente democraticamente eletta e contro cui non pesa alcuna accusa di illecito, ad opera di oligarchi pieni di conti in paradisi fiscali.