In Brasile non è in atto uno scontro tra il bene e il male, tra onestà e corruzione, ma una disputa per il potere tra opposte parti politiche: solo una però è stata legittimata dal voto popolare.
Bisogna partire da qui per orientarsi nella crisi brasiliana, in cui peggioramento dell’economia e instabilità politica si alimentano reciprocamente da oltre due anni. Bisogna partire dal fatto che il Partido dos Trabalhadores è al potere per il quarto mandato consecutivo (due con Lula, due con Dilma, che ha iniziato il secondo a gennaio 2015), e tuttavia vede gravemente appannata la sua capacità di governo dell’economia e con essa quella di mantenere coesa l’inedita coalizione sociale che aveva portato Lula alla presidenza a fine 2002.
La classe media ormai ha voltato le spalle al governo, partiti di centro destra, grandi gruppi economici e media egemonici come Rede Globo hanno fiutato l’opportunità di tornare al potere, e complice lo stretto margine con cui Dilma è stata riconfermata a fine 2014 hanno deciso da molti mesi di giocarsi il tutto per tutto.
L’esplodere dello scandalo di corruzione che riguarda Petrobras, noto alle cronache come Operazione Lava Jato (letteralmente autolavaggio, perché l’inchiesta inizia dalla volontà di far luce su un’operazione di riciclaggio che aveva investito soldi sporchi proprio in una Lava Jato di Curitiba, capitale dello stato del Paranà, nel sud del paese), ha fatto il resto, fornendo strumento e munizioni per questa scalata al potere.
Se per la metà dei brasiliani che lo detesta il governo del PT è un abisso di corruzione e malaffare, per l’altra metà è quello che per primo ha consentito e voluto che la corruzione fosse indagata e punita. È un fatto del resto che fu proprio Lula a modificare le procedure di nomina del Procuratore Generale della Repubblica, introducendo la prassi di scegliere (tra la rosa designata dalla magistratura) il più votato, mentre in passato si selezionava in questo novero quello più amico del governo. Fu così che il prescelto dal predecessore di Lula, Fernando Henrique Cardoso, era conosciuto a Brasilia con il poco onorevole nomignolo di “Engavetador Geral”, insabbiatore generale.
È in questo contesto che è iniziata e ha prosperato la Lava Jato, che presto ha trovato nel giudice Sergio Moro il suo eroe. Osannato dalle moltitudini che domenica scorsa hanno invaso le strade brasiliane nella più grande mobilitazione di sempre (superiore anche alle manifestazioni che decretarono la fine della dittatura o l’impeachment di Fernando Collor), ha preso ad esempio dai magistrati italiani di Mani Pulite, cui espressamente si ispira, nei metodi e nella narrativa. Carcerazioni preventive disposte senza andare troppo per il sottile, utilizzo spregiudicato dei media, protagonismo compiaciuto, giudizi sprezzanti sulla politica, indicata come una sentina di tutti i mali che affliggono il paese: atteggiamenti di cui l’opinione pubblica brasiliana aveva un disperato bisogno, nel discredito generale che ha colpito tutti i partiti.
L’opposizione sconfitta nel 2014 ha intravisto così un’opportunità, e i suoi leader si sono messi a capo della crociata di moralismo, che ha stretto il governo in una morsa: in parlamento manovre per arrivare all’impeachment di Dilma, per le strade mobilitazioni periodiche convocate da movimenti nati dal basso (Vem para a Rua e Movimento Brasil Livre, su tutti), l’onnipresente Rede Globo a squadernare in una incessante campagna mediatica tutte le malefatte di Lula e dei suoi, e solo le loro.
In questo clima, pochi si soffermavano su aspetti delle inchieste che non puntavano direttamente sul governo: il leader del PSDB, il candidato sconfitto da Dilma nel 2014, Aécio Neves, indenne da investigazioni benché citato da ben 4 pentiti della Lava Jato come percettore di tangenti; idem per il Presidente della Camera Eduardo Cunha, i cui estratti dei conti segreti in Svizzera dove affluivano le tangenti sono stati pubblicati da tutti i giornali con tanto di specimen di firma; nessuna misura coercitiva contro figlia e moglie di Cunha, cointestatarie con l’interessato dei suddetti conti, e a differenza del congiunto soggette alla magistratura ordinaria, che invece montava un circo mediatico per chiedere conto a Lula dei pedalò col nome dei nipoti, indicandoli come prova schiacciante dell’occultamento del patrimonio. E si potrebbe continuare a lungo, citando episodi indicatori dell’unilateralità delle indagini.
Solo negli ultimi giorni l’opinione pubblica pare rendersi conto che la corruzione non riguarda un solo lato: Aécio Neves e i suoi domenica scorsa vengono espulsi dai cortei che erano certi di capeggiare, la folla riconosce come suoi leader solo esponenti di estrema destra, come il deputato omofobo Jair Bolsonaro, e i giudici, Sergio Moro in testa.
In questo quadro, l’escalation delle ultime ore, che è difficile non definire golpista. In un gesto illegale e irresponsabile, di chiaro segno politico (la reazione alla nomina di Lula a Ministro da parte di Dilma), il giudice Moro divulga direttamente ai tg della Globo, nel pomeriggio di ieri, in tempo reale, una conversazione tra la presidente in carica e il suo predecessore, svoltasi ieri mattina. Rede Globo ne dà, tra quelle possibili, un’interpretazione unilaterale, che vista l’egemonia delle sue tv diventa per l’opinione pubblica la narrativa ufficiale: la nomina di Lula ha come unico scopo quello di sottrarre l’ex presidente alla giustizia.
Cade così la maschera sulle intenzioni degli “eroi” anticorruzione dell’inchiesta Lava Jato. Una divulgazione arbitraria, a favore di Rede Globo, di un giudice che non era più competente sull’inchiesta, di una conversazione senza alcun indizio di reato, fatta apposta per incendiare e manipolare un’opinione pubblica già surriscaldata. Particolare inquietante, i dettagli dell’audio sembrano indicare che l’intercettazione non fosse sulla linea di Lula, ma su quella di Dilma, se non addirittura nell’ufficio della sua segretaria: si sentono infatti rumori di fondo prima dell’avvio della conversazione, il respiro di questa, il segnale di libero sulla linea, prima della risposta del segretario di Lula. Particolare grave e preoccupante, se si pensa che Dilma stessa fu oggetto di intercettazioni da parte della CIA, in un episodio che qualche anno fa causò un grave raffreddamento delle relazioni con gli USA.
In questo clima diventa quasi irrilevante far notare, facendo chiarezza di notizie riportate superficialmente anche dalla stampa italiana, che Lula non acquisisce l’immunità con la nomina a ministro, semplicemente vede trasferire la competenza a indagarlo e giudicarlo al Supremo Tribunal Federal, la Corte Suprema brasiliana, che – più di ogni altro giudice in Brasile – in anni recenti ha dato prova di grande indipendenza, condannando a lunghe pene detentive esponenti di primo piano proprio del suo Partido dos Trabalhadores.
È molto alta la posta in gioco, e molti a Brasilia hanno dimostrato di essere disposti a tutto pur di assicurarsela.